Messaggioda zampaflex » 25 set 2023 09:39
27 GIORNI PRIGIONIERA DEI RUSSI
Il diario inedito di Olha Meniajlo, rinchiusa dai soldati-ragazzini di Putin nella cantina
della scuola di Yahidne, in Ucraina. L’assenza di regole, il “lasciatelo soffocare” rivolto a un
bambino, la certezza di morire, il pudore delle emozioni e poi, di nuovo, la vita.
Giorno tre. Sempre più persone impazziscono. Nikulina è stata la prima. Continuava a parlare con il figlio morto, come quand’era bambino. Sveta Sorokopud
credeva di essere la padrona di una fabbrica e di licenziare tutti. Slava Melnyk ha urlato e imprecato. Abbiamo dovuto legarlo e imbavagliarlo. Molchenko ha
avuto un attacco epilettico. I bambini piangevano”. C’è un documento pressoché inedito che racconta l’orrore vissuto dall’Ucraina sotto l’occupazione russa. E’il diario di una prigioniera, una civile, scritto nel bel cirillico corsivo delle
vecchie generazioni, nel corso di quasi un mese, nella penombra di un sotterraneo, alla luce di candele e torce. Ogni tanto le righe si accavallano, ma è tutto
intelligibile, nelle sue quasi seimila parole. Un
giorno questa testimonianza potrebbe avere un
ruolo importante nel portare i russi alla giusti-
zia per i loro crimini contro l’umanità. Lo abbia-
mo ottenuto e letto nella versione integrale.
Olha Meniajlo è una donna di cinquantuno
anni, abitante di Yahidne, villaggio dell’oblast
di Chernihiv, Ucraina settentrionale. Come
raccontato da Time e come ricordato sul Fo-
glio da Paola Peduzzi, il 3 marzo 2022, a una
settimana dall’inizio dell’invasione su vasta
scala dell’Ucraina, i russi hanno occupato
Yahidne, due ore di macchina da Kyiv. Il 5
marzo hanno ordinato a tutti i residenti – uo -
mini, anziani, donne e bambini – di lasciare le
loro case e di recarsi in punta di fucile nel sot-
terraneo della scuola locale. 368 persone sono
state recluse in uno spazio angusto, umido e
sporco, sei stanze per un totale di 197 metri
quadri, meno di mezzo metro quadro a disposi-
zione per ciascuno. Senza luce elettrica né ri-
scaldamento né acqua corrente né aerazione.
La prigionia è trascorsa da seduti, perché lo
spazio non consentiva di sdraiarsi. Cibo razio-
nato dai soldati russi, un secchio per fare le
proprie cose, mancanza di ossigeno. Il tutto
per ventisette giorni. Dieci persone sono mor-
te. Olha Meniajlo, fatta prigioniera con il mari-
to Volodymyr e con uno dei suoi figli, la nuora
e il nipotino di quattro mesi, ha tenuto segreta-
mente un diario durante la prigionia. Il 5 mar-
zo, trascinata dai russi fuori dalla propria ca-
sa, ha preso con sé un quadernetto, con l’inten -
to di lasciare un documento ai suoi figli Nata-
lia e Serhii, che si trovavano invece a Kyiv, nel
caso in cui lei, Olha, fosse morta per mano de-
gli occupanti. Nonostante nel seminterrato
non ci fosse quasi luce, ogni giorno Olha scara-
bocchiava qualche frase sul foglio. A fine pri-
gionia ha consegnato il diario a una giornalista
sua conoscente, che lo ha a sua volta passato a
Olesya Yaremchuk, scrittrice e giornalista
ucraina, la quale sta lavorandoci assieme alla collega Svitlana Oslavska.
A Yahidne siamo andati anche noi, in una
sera di settembre 2023, in una visita organizza-
ta dal Pen Ukraine e l’Ukrainian Institute. Sia-
mo scesi giù per quella stessa scala dove un’in -
tera comunità è stata condotta e poi reclusa in
condizioni disumane, equiparabili a un campo
di concentramento. Nonostante fosse passato
oltre un anno dalla fine insperata di quella
prigionia, era come se i russi se ne fossero an-
dati da poco: c’erano le copie di marzo 2022
della Komsomolskaja Pravda aperte su una
panca lercia, che titolavano “Per la patria! Per
la vittoria!”.
C'erano ancora le razioni di cibo consumate
dai soldati-carcerieri, con le scritte in russo e
la stella dell’esercito. Era impossibile non im-
medesimarsi. Ma per un paradosso in fondo
non così strano, le parole di Olha trasmettono
emozioni non inferiori all’esperienza diretta,
oculare e olfattiva. “Giorno uno. Scrivo dal
sotterraneo della scuola. Solo questa mattina
io e mio marito eravamo nella cucina di casa, a
preparare le patate ripiene per tutta la fami-
glia. Abbiamo guardato fuori dalla finestra. In
cortile c’erano dei soldati sconosciuti. Una
donna in divisa e altri soldati. Stavano piaz-
zando dei mortai. Avevano fasce rosse al brac-
cio e sulle gambe. Erano russi. ‘Andate alla
scuola, tutti!’, ci hanno gridato. Abbiamo chie-
sto loro che cosa stesse succedendo. La donna
ci ha intimato di salire su un loro veicolo, ci
avrebbero portati alla scuola. Ma mi è stato
detto che non si deve mai accettare di salire
sui mezzi militari russi, così ho risposto: ‘In
macchina non saliamo’, e siamo andati tutti a
piedi. Lena, mia nuora, teneva in braccio il
piccolo Oleksiy. Ci sono voluti cinque minuti
per andare da casa nostra alla scuola, ma quei
cinque minuti sono impressi nella mia memo-
ria per sempre. I russi stavano rastrellando
tutti dalle proprie case. Hanno preso persone
disabili, che stavano a letto e non potevano
camminare, e le hanno portate via”. Così co-
mincia il racconto di Olha. Il linguaggio è scar-
no, asciuttissimo, eppure quando l’ucraina
guarda terrorizzata per la prima volta in quel
sotterraneo le parole non le mancano. “Non
ho dubbi, ho visto l’inferno. Non c’è luce. Nel
buio, la prima cosa che senti è il caldo, l’afa,
l’odore della carne umana e del sudore, me-
scolati al fumo delle poche candele e di una
lampada a cherosene. Decine di persone sono
accatastate sulle sedie e per terra, una accan-
to all’altra, le loro sagome che tremolano
nell’oscurità, proprio come nelle antiche ico-
ne che raffigurano l’inferno. Una visione in-
sopportabile”.
Nel sotterraneo maleodorante Olha e il ma-
rito prendono posto su una piccola panca nel
corridoio. La prima di una serie di notti da
seduti, aspettando svegli il mattino. “Avevo
male dappertutto. I secchi dove fare le pro-
prie cose erano pieni. Mia nuora Lena teneva
tra le braccia Oleksiy. Come puoi prenderti
cura di un bambino di quattro mesi in un se-
minterrato senza elettricità, acqua o servizi
igienici?”. La prigionia di un intero paesino è
cominciata. I telefoni sono sequestrati. Nel
corso delle settimane successive, le privazioni
saranno continue, assolute, gratuite. La con-
cessione di uscire dal rifugio una sola volta al
giorno per andare al gabinetto – una latrina
nel cortile soprastante, circondata da un cam-
po minato e sotto l’occhio dei carcerieri – non
è sempre rispettata. Molte persone impazzi-
ranno, come si è visto. Il primo a morire, il
quinto giorno, è Dmytro Muzyka, di 92 anni.
Sua moglie Maria gli sopravvive solo per pochi
giorni. Un’altra persona muore il sesto giorno,
poi due in un giorno soltanto. Dal 5 al 30 mar-
zo, saranno in dieci a morire per mancanza di
ossigeno, medicine e cure. Ci sono pagine così:
“Polja Makater è morta stanotte. Il suo corpo è
stato portato nel locale caldaie”, e basta. Il
giorno successivo: “Abbiamo seppellito Polja
Makater. Ci hanno lasciato avvolgerla in una
coperta. L’abbiamo buttata nella fossa dove
c’è anche Tolia e siamo andati via senza che le
si facesse un funerale”. Qualcuno tenta di ri-
bellarsi. “Giorno due. Siamo fortunati che non
ci hanno ancora perquisito o picchiato. La
maggior parte degli altri sono stati perquisiti.
Gli hanno preso i cellulari e gli oggetti di valo-
re. Capiamo che non abbiamo scelta. Chi pro-
testa viene ucciso. Ieri hanno sparato a tre
persone. Uno era Vitja Shevchenko, mio coe-
taneo”. Agli ucraini che chiedono spiegazioni,
nei primi giorni i soldati russi – alcuni dei
quali, annota Olha, sono “ragazzini”, giovanis-
simi – spiegano che sono qui “per liberarvi dai
nazisti”. “Non ci sono nazisti, qui”, risponde
Olha. “L’unica cosa dalla quale ci avete libe-
rati sono le nostre case”. I russi dicono loro:
“abbiamo già preso Kherson, Mykolaiv, Odes-
sa. I nostri sono già a Kiev. Abbiamo preso Iva-
nivka senza sparare un solo colpo. Al vostro
Zelensky non resta che firmare la resa”. “Que -
sta è tutta una bugia. Non avete preso nulla”,
ribatte Olha. “Perché ci avete portati qui? Per
nascondervi dietro di noi? Per usarci?”.
Già, perché trecentosessantotto abitanti di
un paesino vengano trattenuti come delle be-
stie è tutt’ora oggetto di interrogativo. Una ri-
sposta potrebbe essere che se ne volesse fare
appunto merce di scambio. Ma è un’ipotesi e
basta. Anzi se c’è una cosa che la lettura del
diario di Olha consente di evitare è quell’in -
ganno che ogni narrazione a posteriori induce
nel lettore. Cioè la storia scritta dopo che i
fatti si sono svolti, sapendo come sono andati a
finire. Noi sappiamo che alla fine i prigionieri
di Yahidne sono stati liberati. Che chi non è
stato ucciso o non è morto per le condizioni
disumane della detenzione si è salvato. Ma lo
sappiamo ora. Invece, una delle caratteristi-
che di questa reclusione è l’arbitrarietà asso-
luta. Per giorni, e sempre più man mano che il
tempo passava, i prigionieri ucraini si sono
convinti che sarebbero tutti morti. Come topi
in trappola. Si ha l’impressione (e questo coin-
ciderebbe con altri racconti delle zone occu-
pate dai russi in Ucraina) che sulla sorte dei
prigionieri più che una regola feroce pesi l’as -
senza di ogni regola. “E’ chiaro che le armi
non sono più pericolose dei soldati che le por-
tano”, scrive Olha. “Perché quei soldati sono
scimmie ubriache con in mano granate e mi-
tragliatrici”.
Gli ucraini sono in balìa di decisioni im-
provvise, di umori di soldati di cui non cono-
scono i nomi (alcuni di loro sono stati poi iden-
tificati e sono cominciati processi in contuma-
cia da parte della magistratura ucraina), ma
solo i soprannomi di guerra. Soldati dai quali
dipendono interamente, e di cui imparano
presto le differenti inclinazioni. Klen (“Ace -
ro” in russo e in ucraino), un comandante dai
capelli rossi, è descritto da diversi di loro co-
me un sadico, un complessato con una forma
di mania di controllo, oltre che un vero cre-
dente nella causa putiniana. “Nel pomeriggio
Sveta Minenko si è avvicinata a Klen e gli ha
chiesto di non chiudere a chiave le persone
durante il giorno perché nel sotterraneo c’era
molto caldo e un bambino stava soffocando.
Lui ha risposto: ‘Lasciatelo soffocare’”. “Di -
khtyar ha chiesto di tornare a casa, ha detto
che non può restare qui, che ha il cancro e ha
bisogno di medicine e di un letto adeguato. La
risposta: ‘Vai a impiccarti’”.
Impariamo a conoscere il lugubre ambien-
te umano in cui Olha e gli altri prigionieri si
muovono: un certo Glukhi, “Sordo”, e poi il
comandante Pauk, “Ragno”. 26 marzo: “Pauk
ha ordinato di fare un buco per far passare un
po’ d’aria nel sotterraneo, perché qui non si
respira. Ha detto di cercare domani dei pic-
coni in cortile coi quali fare il foro per la ven-
tilazione. Gli abbiamo chiesto quanto ancora
dovremo soffrire qui. Ha detto che non lo sa.
Gli abbiamo chiesto se fosse possibile torna-
re a casa almeno per un po’. Non ha detto
niente”.
In queste condizioni estreme i russi non rinun-
ciano a infierire anche ideologicamente sui pri-
gionieri ucraini.
“Giorno ventisei. Oggi Glukhi ha portato a Ole-
na l’inno russo su un pezzo di carta e le ha detto
di impararlo. Ci ha detto che chi avesse imparato
a cantare l’inno russo avrebbe potuto tornare a
casa. Nessuno lo ha fatto”. Sappiamo dal repor-
tage di Svitlana Oslavska per Time che i soldati
chiedevano anche ai prigionieri di registrare dei
video, con due distinti destinatari: il pubblico
russo, al quale dire che le loro condizioni di
detenzione erano buone e che venivano nutriti
regolarmente; e quello ucraino, rivolgendosi di-
rettamente a Zelensky, per chiedere al presiden-
te che firmasse la resa e facesse finire “questa
assurda guerra”.
Anche a questa richiesta, c’è da dirlo?, nessu-
no degli ucraini di Yahidne ha mai acconsentito.
Altre volte il comportamento russo non prende
nemmeno la forma del ricatto, del do ut des, ma
si ferma al puro abuso, all’arbitrio. “Giorno ven-
ti. Questa mattina i russi non ci hanno dato ac-
qua da bere. Una nuova forma di bullismo. Poi
all’improvviso hanno gridato che dieci di noi po-
tevano andare in bagno. Alcuni si sono precipita-
ti alla latrina. A quelli arrivati dopo non hanno
lasciato usare il bagno. Li hanno rinchiusi nel
sotterraneo. Poi nel pomeriggio ci hanno detto di
nuovo che avrebbero lasciato andare in bagno
dieci persone. Ci siamo messi in fila, ma i russi
hanno cambiato ancora idea e ci hanno detto che
ci avrebbero fatti uscire solo tre alla volta”. In
balia di scimmie ubriache. “Questo pomeriggio
ci hanno chiuso nel sotterraneo mentre scarica-
vano un camion. Quando ci hanno fatti uscire,
nel cortile c’era una carriola piena di pane. Tutti
sono corsi a raccoglierlo, chi prendendo quattro
o cinque pezzi, chi riempiendosene le mani”.
Durante l’intera reclusione, a Olha Meniajlo vie-
ne consentito cinque volte di andare velocemen-
te a casa, a prendere cose di prima necessità. I
suoi parenti vengono trattenuti nel sotterraneo,
non c’è il rischio che lei possa scappare. “Mi
hanno dato 25 minuti. Sono corsa a casa e quello
che ho visto fuori mi ha ricordato il videogame
‘Stalker’, ambientato a Chernobyl. In strada
c’erano ovunque vetri rotti, frammenti e detriti
di ogni genere. Una bomba conficcata nell’asfal -
to. Nel nostro cortile erano parcheggiati due vei-
coli corazzati. Le finestre erano tutte rotte. La
casa è un incubo totale. Il mio gatto Mas’ è venu-
to correndo da me. Ho chiamato anche l’altro,
Richie, ma non è uscito. Non avevo tempo per
cercarlo. Mi sono precipitata a raccogliere tutto
quello che avevo in lista. Ho trovato solo le mie
vecchie scarpe da ginnastica e le pantofole di
papà. Hanno rovistato ovunque, aperto gli arma-
di e tirato fuori tutti i vestiti, buttato a terra tutto
quello che c’era sugli scaffali. Il bagno è pieno di
merda. Ho preparato piatti e posate che volevo
portare via e poi nella fretta li ho dimenticati. In
compenso ho preso alcune lattine di cibo. Sono
corsa indietro verso il sotterraneo. Ho fatto ap-
pena in tempo. Ho la bocca secca, le mani che
tremano. E’ stato tremendo. Sono solo felice che
Mas’ sia vivo”.
I prigionieri di Yahidne segnano sui muri i
nomi dei morti, su una colonna, e poi quelli dei
loro compaesani ammazzati, su un’altra. Infine i
propri, man mano che le speranze si affievolisco-
no. “Dobbiamo sopravvivere in qualche modo.
Affinché questo sotterraneo non diventi per noi
una fossa comune. L’unica salvezza sarebbe che i
russi se ne andassero. Ma quando? Quanto tem-
po dovremo soffrire qui? Questa notte è stata
insopportabile, mi è sembrato che non le sarem-
mo sopravvissuti”. Olha annota: “Le urla conti-
nue dei bambini, la tosse rauca di qualcuno, le
imprecazioni di qualcun altro perché viene cal-
pestato da chi sta andando in bagno, e poi chi
parla nel sonno, le esplosioni... Tutto questo mi
impedisce qualsiasi riposo. I pensieri brulicano
costantemente in testa come mosche. A consolar-
mi e un po’ a tranquillizzarmi è solo il pensiero
che la mia famiglia è ancora viva e in salute. E
anche la preghiera”. C’è un momento commoven-
te, verso la fine di questo inferno, in cui i cre-
scenti rumori di combattimenti che provengono
dall’esterno, non lontano, assieme alle voci insi-
stenti che si moltiplicano sulla resistenza ucrai-
na, sull’esercito che sta difendendo il paese, su
un’imminente liberazione, consentono a Olha e
ai suoi compaesani dei pensieri migliori. Ed è
allora, come in una specie di sogno proibito, co-
me in un miraggio collettivo sul genere del Pran-
zo di Babette, che si materializza la più autenti-
camente ucraina di tutte le possibili visioni:
“Tutti hanno ricominciato a parlare di progetti
per il futuro, della vita dopo la guerra, allora
abbiamo sognato di cucinare... una grande pen-
tola di borscht. E una grande padella di patate
saltate, per tutta la casa”. Il borscht, infine. “Ho
molto lavorato con Olha da quando mi hanno
consegnato il suo diario”, ci dice Olesya Yarem-
chuk. “L’ho intervistata più volte. Non solo vole-
vo ricontrollare i dettagli e le date e i riferimenti
contenuti nel suo diario, scritto in modo sempli-
ce, scarno, essenziale. Ma volevo anche confron-
tarmi, per quanto possibile, con le emozioni
dell’autrice”.
Il riferimento di Olesya è a una cosa che chi
abbia parlato con gli ucraini delle vecchie gene-
razioni sa bene. Ce ne accorgiamo anche, visitan-
do Yahidne, quando parliamo con Ivan, altro pri-
gioniero sopravvissuto, che ci accompagna nel
sotterraneo, e lo fa con una dolcezza nutrita di
pochissime parole. C’è una cosa che non torna
nei film e nelle serie dedicate al vecchio mondo
sovietico, anche in quelle molto belle e ben fatte
come “Chernobyl”, di Johan Renck, del 2019: tut-
te le volte che uno sceneggiatore e di conseguen-
za degli attori occidentali raccontano dialoghi e
scambi che hanno come protagonisti gli abitanti
dell’ex Unione Sovietica ci mettono l’enfasi emo-
tiva, il calore, il trasporto, insomma l’espressio -
ne delle emozioni che abbiamo noi, moderni, og-
gi, in questa parte di mondo. La cosa più difficile
da rappresentare è quella che emerge anche in
questo diario di Olha Meniajlo: la modestia, nel
senso di pudore delle emozioni, il riserbo, il si-
lenzio quando non è freddo o ostile ma semmai
un’abitudine relazionale, un comandamento cul-
turale antico. Si potrebbe pensare, ma neanche
questo paragone calza davvero, all’austerità del-
la nostra stessa società contadina fino a qualche
decennio fa. Non calza tuttavia, perché nella ge-
nerazione di quelli come Olha c’era qualcosa di
più ancora, forse l’abitudine a non fare domande
e non aspettarsi risposte tipico dei sudditi di
regimi autoritari, forse la censura delle emozio-
ni come strumento storico di sopportazione: non
avere aspettative, non consentire a sogni, desi-
deri e ambizioni di condurti su strade pericolo-
se. Tutto questo però non significa, ancora una
volta, freddezza. Anzi succede una cosa strana e
affascinante, e cioè che quelle emozioni, nasco-
ste, celate, in qualche modo si intravedano, e per
chi le percepisce diventino assai più forti e com-
moventi di quelle espresse manifestamente.
Si piange con Olha e con tutti gli altri quando,
al giorno ventisette, arriva la liberazione, quan-
do dal rifugio sentono che, in fretta e furia, “i
russi se ne sono andati”, forzano l’uscita, guar-
dinghi fanno i primi passi nel cortile degli orro-
ri, e la scena non può non ricordare l’allucinata
incredulità dei superstiti di Auschwitz nel capi-
re che i tedeschi avevano smobilitato. Si piange
quando dal bosco i prigionieri vedono arrivare
dei soldati, ma stavolta sono gli ucraini con le
loro fasce blu al braccio. Quando Olha recupera
il proprio telefono, che aveva sotterrato da qual-
che parte (ma senza scriverlo nelle pagine prece-
denti, ovviamente), “aveva perfino un po’ di cari-
ca residua. “Yasya Rudenkova mi ha dato un po’
del suo power bank, ma si è caricato solo fino al
7 per cento, la connessione era pessima, ho chia-
mato mia figlia Natalia, le ho detto che eravamo
tutti vivi e le ho chiesto di avvertire tutti i paren-
ti”. Arriva la prima notte da liberi a Yahidne. E’
anche l’ultima pagina dell’incredibile, incredi-
bile diario di Olha Meniajlo. “Era impossibile
passare la notte nella nostra casa, che manca di
tutto. Avevamo anche paura che non tutti i russi
se ne fossero andati, quindi quasi tutti siamo
tornati a dormire nel sotterraneo. Alcuni ragazzi
sono rimasti fuori tutta la notte, vicino al fuoco, a
montare la guardia. La notte è trascorsa tran-
quilla. Ma non ho dormito. Quasi nessuno ci è
riuscito”.
Non progredi est regredi