Messaggioda zampaflex » 15 gen 2025 21:55
Riprendo un articolo dell'Huffington Post sul mercato del lavoro, da meditare.
Difficoltà per le aziende nel trovare le persone e le competenze di cui hanno bisogno, con effetti negativi sulla produttività; condizione di insoddisfazione per le persone, che vorrebbero lavorare, ma che faticano a trovare un impiego, e ancor di più a trovarlo soddisfacente: è il mismatch lavorativo.
In un precedente post, ho provato a evidenziare alcune storture che incidono sul fenomeno parlando di formazione, soprattutto di un problema di politiche attive e partecipazione a quei percorsi di formazione che dovrebbero accompagnare lungo tutto l’arco della vita, quella formazione continua, appunto, che dovrebbe far fronte a obsolescenze e necessità di stare al passo con le continue trasformazioni imposte ai sistemi produttivi e, di conseguenza, ai profili e alle competenze richieste ai lavoratori.
Ma quando parliamo di mismatch, parliamo anche e soprattutto di giovani, ed è sì un problema di formazione e istruzione, ma c’è anche altro.
Ed è altro che ha a che fare, da una parte con i numeri: il mercato del lavoro italiano si sta svuotando. Per anni, e in alcuni territori si tratta di una tesi ancora sostenibile, ci siamo occupati del mercato del lavoro principalmente analizzando le difficoltà della domanda di lavoro, oggi ci troviamo di fronte ad una crisi mai osservata prima dell’offerta di lavoro. Secondo una recente ricerca di Adapt, negli ultimi dieci anni, la popolazione in età lavorativa si è ridotta di quasi un milione di persone tra i 15 e i 34 anni di età. Altri due milioni e mezzo sono scomparsi dalla fascia 35-49 anni. Mentre sono cresciuti di quasi due milioni gli over 50 ancora attivi. E le persone in età da lavoro (comprese tra i 15 e i 64 anni) diminuiranno inevitabilmente nei prossimi anni. Quello che ci troveremo ad affrontare è un problema che finora non abbiamo mai rilevato, un problema inedito, che richiederà risposte inedite, multidimensionali.
Ed è altro che ha a che fare anche con una narrazione sulla mancata corrispondenza tra le competenze possedute dalle persone e quelle richieste dal mondo del lavoro che lascia nella penombra dati e riflessioni senza considerare i quali difficilmente si potrà comprendere la portata di un fenomeno come quello del mismatch, così variegato, che trova specificità e diversità in base ai settori che si considerano, alle specializzazioni dei profili che si analizzano, alla qualificazione delle competenze che si indagano.
Secondo l’ultimo Rapporto ISTAT, nel 2023, tra gli occupati laureati, circa 2 milioni di persone (il 34% del totale) risultano sovraistruite rispetto all’occupazione che svolgono, con un’incidenza maggiore per quelli con meno di 50 anni. Tra i più giovani (25-34 anni), sono più frequentemente sovraistruiti gli stranieri (52,0% contro il 36,9% degli italiani) e le donne (39,8 % rispetto al 34,5% degli uomini). Tra il 2019 e il 2023, la quota dei sovraistruiti è cresciuta di 1,1 punti percentuali.
Si tratta del mismatch verticale, sottoistruzione o sovraistruzione. E se le cause possono essere rintracciate in una lenta risposta del sistema di istruzione e formazione alle esigenze del mercato del lavoro, ma anche in una scarsa capacità di assorbire risorse umane qualificate da parte di aziende o istituzioni, concentrarsi anche su questo secondo aspetto potrebbe evitarci di indirizzare discussioni, politiche e risorse verso traguardi non risolutivi del problema.
Una incapacità quella di assorbire qualifiche adeguate al livello di competenze da parte del nostro sistema produttivo così elevata nonostante un ritardo storico che accompagna il nostro sistema Paese: quello relativo al numero di laureati. Alla fine del 2023, secondo una rilevazione Eurostat, solo il 30,6% dei giovani di età compresa tra 25 e 34 anni è in possesso di un titolo accademico. Siamo terzultimi in Europa per tasso di laureati, solo Ungheria (29,4%) e Romania (22,5%) registrano tassi più bassi.
A ciò aggiungiamo un ulteriore elemento di riflessione: il dato sulla fuga dei cervelli. Secondo il rapporto ISTAT 2023, nel decennio 2011-2021 l’Italia ha perso 377 mila giovani formati in Italia. Un rapporto di Fondazione Nord Est in collaborazione con il network Tiuk (Talented Italians in the UK), che riunisce professionisti italiani nel Regno Unito, ha misurato che il dato effettivo sia tre volte tanto, vicino agli 1,2 milioni.
E sì, ha ragione il direttore Mattia Feltri quando sostiene che in un’Europa che si considera tale, non si dovrebbe nemmeno parlare più di fuga di cervelli. E, mi permetto di aggiungere, decidere di lavorare a Parigi o a Berlino e non in Italia non dovrebbe essere un dato rilevante, degno di nota ai fini di analisi sulla qualità del lavoro, per un’Unione Europea che si considera davvero Unione.
Ma, in questo campo, purtroppo, il dato resta di rilievo nel momento in cui per ogni giovane che arriva in Italia dai paesi avanzati, otto italiani vanno all’estero: lo studio dalla Fondazione Nord Est ci dice anche che, in tredici anni, dal 2011 al 2023, circa 550mila giovani italiani tra i 18 e 34 anni sono emigrati, per un valore stimato di 134 miliardi. Rispetto al resto d’Europa, in altre parole, l’Italia è all’ultimo posto per capacità di attrazione di giovani, accogliendo solo il 6% di europei, contro il 43% della Svizzera e il 32% della Spagna.
Quando parliamo di mismatch in Italia, quindi, parliamo senza dubbio della necessità di formare quanti più giovani alle professioni del futuro, che saranno inevitabilmente tecniche, tecnologiche, innovative, digitali. Ma in un Paese con un tessuto produttivo composto, al 98%, di piccole e medie imprese, anche piccolissime, che faticano a investire in ricerca, sviluppo, innovazione e digitalizzazione, che non hanno i presupposti per poter procedere autonomamente in quella direzione, risolvere il problema della mancata corrispondenza tra i posti vacanti delle imprese e i profili dei lavoratori spingendo sulle lauree Stem e verso profili altamente specializzati e tecnici intere generazioni potrebbe non essere l’unica soluzione.
E se è vero, come è vero, che il lavoro fa l’economia, in un Paese come quello che ci ritroviamo, sfruttare la forza delle piccole imprese, anche familiari, puntare sul loro potenziale di resistenza e sopravvivenza, di sviluppo e eccellenza, significa investire in reti, in filiere, in finanziamenti mirati e adeguatamente monitorati e valutati. Significa ragionare in prospettiva. E oggi nessuna strategia di crescita può prescindere da una capacità di programmazione di interventi, misure e servizi che siano realmente coordinati e integrati, dal lavoro allo sviluppo, dalla formazione all’innovazione.
Non progredi est regredi