Messaggioda zampaflex » 08 set 2024 19:22
Traggo dal Longform odierno di Rep:
in un’Italia dove la popolazione cala e invecchia a ritmo preoccupante, i territori periferici vivono una desertificazione accelerata. Negli ultimi dieci anni gli abitanti delle cosiddette aree interne, tra decessi, trasferimenti verso le città o oltre confine, sono scesi di 700 mila unità, un calo del 5% contro quello dell’1,4 registrato nei poli urbani con le loro cinture.
Le famiglie se ne vanno perché mancano lavoro e servizi, così chiudono altre scuole, bar e negozi, in un circolo vizioso che pare impossibile da arrestare. Nell’ultimo decennio sono sparite dai piccoli centri 26 mila attività commerciali, una su dieci, e ogni anno le banche cancellano un centinaio di filiali, 3.300 Comuni non ne hanno più una. Se il fenomeno è più grave al Sud e lungo la dorsale appenninica, riguarda anche molti territori del Nord, come le valli tra Emilia e Toscana, le aree alpine del Friuli o del Piemonte, il delta del Po. Restano gli anziani, e chi resta invecchia: il rapporto tra ultra 65enni e bambini sotto i 14 anni, che vent’anni fa era del 133%, in linea con il resto d’Italia, è esploso al 214%.
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Una strategia per la verità ci sarebbe, da più di dieci anni. Si chiama Snai, Strategia nazionale aree interne, lanciata nel 2012 dall’allora ministro del Sud e della Coesione Fabrizio Barca.
L’obiettivo era prima di tutto accendere un faro sui territori periferici, senza distinzione tra Isole, Sud, Centro e Nord, identificandoli sulla base della distanza dei servizi essenziali come scuole ed ospedali. Poi riconoscerne il valore per lo sviluppo dell’Italia, visto che comprendono il 60% del territorio, ricco di risorse naturali e culturali, e (ancora) un quarto della
popolazione, 13 milioni e 300 mila persone, popolazione che se franasse tutta sulle città le farebbe collassare. Infine ribaltare la logica degli interventi: non spargere fondi o calare dall’alto un programma uguale per tutti, ma progettare insieme alle comunità e agli amministratori locali dei piani specifici che aumentino l’offerta di servizi, scommettendo che nel lungo periodo questo possa frenare lo spopolamento.
A oltre dieci anni di distanza che risultati ha avuto? Non si è neppure arrivati al punto di poter rispondere. Il meccanismo, forse perfino troppo ambizioso, ci ha messo un’eternità a mettersi in moto, scontrandosi con l’allergia dei ministeri a un metodo diverso e con la scarsità di competenze a livello locale. Nel 2022 risultavano comunque approvati gli iper-burocratici accordi quadro delle 72 aree coinvolte, per un valore degli interventi di 1,2 miliardi tra risorse europee e nazionali. Ma la quota effettivamente sborsata è ferma all’11,6%, una lentezza anche superiore a quella con cui l’Italia (non) spende gli altri fondi comunitari.
«La strategia nasceva con una forte regia centrale, noi giravamo per i territori per supportarli e mediavamo tra le loro richieste e i ministeri: poi è stato tutto smontato», dice Sabrina Lucatelli, che è stata la coordinatrice del Comitato tecnico dal 2012 al 2019, e oggi dirige l’associazione Riabitare l’Italia. «Con questo governo il disastro è totale, ma già con i precedenti era mancata la volontà politica di portarla avanti, non capendone l’importanza ». Al dipartimento Coesione, ancora per poco sotto l’autorità del ministro Raffaele Fitto destinato a Bruxelles, il Comitato aree interne non ha un coordinatore e non si riunisce da oltre due anni.
Non progredi est regredi