gianluca1975 ha scritto:Non credo sia proprio così, i miracoli al massimo posso concederteli con vini stranieri provenienti da Lourdes o Medjugorje o Fatima...
Pur con tutta la tolleranza di variabilità di bottiglia non è credibile e neanche vero che su una produzione di X bottiglie se ne possa trovare solo una miracolata over 95 e tutte le altre under 90. Se quel vino è grandissimo al punto da paragonarlo ai migliori vini del pianeta frutto delle migliori annate allora vuol dire che deve esserlo, potrò trovare bottiglie sfortunate (anche qui bisogna distinguere tra bottiglie con evidenti o accennati problemi da quelle che si trovano in fase di chiusura), ma prima o poi la bottiglia buona ci deve essere, altrimenti finiamo nel campo del paranormale...
Prima o poi, certamente. Ma con l'aumentare della variabilità di bottiglia, le probabilità si fanno sempre più sfavorevoli, e l'esito su una prova secca come quella che hai appena descritto sempre più a rischio.
A me stesso è successo più di una volta di aprire bottiglie di Rossese da cui mi aspettavo molto, e di trovarci dentro assai meno, assai poco.
C'è un fenomeno assai importante, che credo sia poco considerato nel mondo del vino, lo ha toccato Armando apertamente e lo ripropongo.
Il grandissimo vino di
terroir (il che per me è quasi la stessa cosa che dire "il grandissimo vino" e basta) è figlio di pratiche minimamente intrusive. Non è un caso che i vini più sono buoni e più sono bizzosi, imprevedibili, croce e delizia. Bisogna correre sul filo del rasoio, rischiare continuamente di lasciare andare l'uva acerba, muffita, grandinata, surmaturata, il vino in aceto, brett, riduzione, ossidazione, sovraestrazione, rifermentazione e mille altre brutte cose, per riuscire a portare il pieno potenziale del proprio vigneto dentro la propria uva, il pieno potenziale della propria uva dentro il proprio vino.
L'unico distretto che è stato capace di superare (o scavalcare?) questa antinomia è Bordeaux, forse anche perché ha saputo imporre -commercialmente- i propri standard tecnici come un assoluto culturale, e farne una cosa sola con il proprio terroir. Fatto sta che per il resto dei vini del mondo va come dice Armando: più il vino è grande, meno si deve sentire l'impronta della tecnica.
In che cosa si traduce questo imperativo? Nel rischio di lasciare il vino chimico-fisicamente più instabile.
I produttori davvero consapevoli di questo stato di cose, che corrono costantemente sul filo del rasoio tecnico con l'intenzione di fare il vino il più puramente territoriale che si possa, questi sono pochissimi. Questi sono quelli che più spesso negli anni riescono a portare in bottiglia grandissimi vini di terroir, e ad avere insieme una variabilità di bottiglia ragionevolmente contenuta. Di norma però non nulla, non trascurabile. Questi diventano i mammasantissima dell'enologia mondiale. Giacomo Conterno e Bruno Giacosa, Lalou Bize Leroy e de Villaine, Rayas e Chave, Biondi-Santi e Soldera... Difficile che ce ne siano più di un pugno per ogni grande distretto.
L'altra categoria di produttori che riescono a portare in bottiglia vini altrettanto territoriali, anzi ancor più puramente territoriali, sono gli arcaici, gli inconsapevoli, quelli che si regolano istintivamente ed empiricamente sui ritmi della loro vigna, della loro cantina, delle loro tradizioni locali, e cercano semplicemente di fare il vino buono. Senza sapere nemmeno bene come debba essere, che cosa sia esattamente il confine fra la componente varietale e quella territoriale, fra la parte della natura e quella della tecnica. Fanno il vino, il
loro vino. Questi produttori nel correre inconsapevolmente sul filo del rasoio tecnico è più facile che ne usino troppo poca, di tecnica, anziché troppo tanta, e che i loro vini risultino quindi progressivamente chimico-fisicamente più instabili.
E' esattamente questo il presupposto metodologico e razionalmente comprensibile per cui è proprio da queste cantine che escono vini dall'alta-altissima variabilità di bottiglia, di cui molte bottiglie sono nel bicchiere vini sinceri ma limitati, spogliati dalle mille insidie biochimiche dei vini "naturali", ma le poche bottiglie che si salvano - ecco: sono fra le più grandi cose che ti possa capitare di mettere sotto il naso in una vita intera di passionate matta e disperatissima.
Il punto centrale qual è?
Che non esiste grandissimo vino, nemmeno di questo tipo arcaico ed inconsapevole, che non sia fatto con un vitigno di grande talento, coltivato in un territorio di grande vocazione. Il grandissimo vino può nascere inconsapevolmente, ma non nasce mai per caso, non nasce mai in un posto qualunque.
E' di questa grandezza che le bottiglie come quella di cui si parla sono testimoni e prove viventi: della grandezza assoluta del Rossese di Dolceacqua.
Non altrettanto della grandezza del Vigneti d'Arcagna 2004 di Testalonga, in quanto vino. Lo dice paradossalmente la stessa assoluta grandezza della bottiglia dell'altra sera, nella sua precisa connotazione tecnica, diretta risultante di quella storica e culturale.
Fosse diversamente, Antonio Perrino sarebbe ricco e famoso come Giacomo Conterno o Franco Biondi-Santi. E lo potrebbe pure essere, non fosse che Dolceacqua non ha avuto la fortuna né di Barolo né di Montalcino.
La fortuna di un distretto produttivo non è il risultato del solo talento del vitigno autoctono e della sola vocazione del territorio. E' questo il punto.
“La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri.”