Messaggioda de magistris » 30 dic 2008 16:43
Dopo tanti nebbioli, sangiovesi e pinònneri, in questi giorni ho fatto una vera e propria indigestione di aglianico concludendo, si fa per dire, quanto segue.
L’aglianico secondo me è potenzialmente la più completa varietà italiana. Un’idea che mi sono fatto non tanto e non solo con i ’68 Riserva del Mastro (ma anche con i ’28, ’34, ’58, ’61, ’73, ’77, e così via), ma piuttosto con una serie di bottiglie di tutt’altro genere e livello che, a ben guardare però, raccontano molto di più di quanto sembra.
Aglianici irpini e beneventani da 5-6.000 lire di inizio anni ’90, aglianici fatti in damigiana da produttori prima di avere la cantina e le attrezzature, Taurasi degli anni ’70 e ’80 tenuti in sottoscala con 40 gradi d’estate e -10 di inverno. Non certo grandi bevute in senso assoluto: molti vini magri e rustici nei tannini, altri con volatili decisamente alte, altri ancora con la classica riduzione di pelliccia che per decenni veniva venduta come tipicità, però…
Però quello che non finisce mai di stupirmi, specialmente se inserito in un quadro di ciò che percepisco come eccellenza ogni anno più tarato verso l’alto, è l’incredibile capacità strutturale di questi vini di resistere, pur con tutti i loro difetti, e sopravvivere ad ogni genere di variabile: vinificazioni sbagliate, annate deboli, conservazioni ad capocchiam. Ci pensavo in questi giorni: di aglianici cattivi ne ho bevuti tanti in vita mia, ma faccio fatica a ricordarmene uno completamente e definitivamente ossidato. L’integrità e la longevità di un vino sono solo due degli aspetti che contribuiscono alla sua grandezza, ma è vero anche il contrario: un vino non è veramente grande se non sa resistere al tempo.
Se mi chiedete quali sono i dieci rossi della mia vita, probabilmente nella mia risposta troverete un solo aglianico (e potete immaginare quale), e ancor di più potete immaginare la provenienza degli altri 9. Però per ogni Barolo o Borgogna invecchiati da emozione assoluta ne ricordo altrettanti che ci hanno visto ricorrere alla formula “bottiglia sfortunata”. Frase assai meno ricorrente in vini magari meno nelle mie corde ma superaffidabili rispetto alle variabili tempo, conservazione, flussi energetici come Bordeaux o Rodano.
Più assaggio aglianici giovani e vecchi e più mi sto facendo l’idea di un vitigno potenzialmente ultratrasversale, che nelle migliori espressioni è in grado di far convivere una faccia femminil-giacosiana, tanto per semplificare, che parla al naso attraverso sfumature agrumate e floreali e in bocca con l’acidità e il sapore più che con gli estratti, e un altro volto invece inequivocabilmente maschile che si fa riconoscere attraverso la decisa speziatura di pepe nero, le note terragne e tabaccose ma soprattutto attraverso un impianto tannico razionale e incisivo. Quando faccio assaggiare alla cieca degli aglianici buoni, succede quasi sempre la stessa cosa: chi non li conosce bene spesso spara Monforte-Serralunga oppure Panzano-Gaiole, chi ne ha bevuti dice subito aglianico. Che secondo me vuol dire: l’aglianico sa prima di tutto di aglianico e se ne hai bevuti lo riconosci facilmente. Ma allo stesso tempo è un vino-vitigno che sembra prendere in prestito alcune componenti virtuose di quelli unanimemente considerati come i grandi di riferimento.
Se oggi penso all’aglianico in rapporto agli altri vini-vitigni che mi smuovono anima e cervello, al momento farei molta fatica a collocarlo con decisione e argomenti. Però, se obbligato sotto tortura mi abbandonassi all’istinto e alle libere associazioni, aggiungerei l’ennesima cazzata del 2008 mettendolo al centro di una rosa dei venti con una punta nord chiamata nebbiolo, una punta est chiamata sangiovese, una punta ovest di libeccio che chiamerei cabernet sauvignon e uno scirocco travestito da sirah.
Sono solo pensieri in libertà che il più delle volte si innescano casualmente ma che ci tenevo a condividere. Perché ultimamente ogni assaggio di aglianico, vecchi e nuovi, moderni o tradizionali, vulturini taburnini irpini che siano, mi fa partire immediatamente per un viaggio virtuale dai mille bivi. Ma che bello, però. Perché c’è molta più felicità in quel che non è chiaro piuttosto che in tutto ciò che è considerato acquisito, conosciuto, definitivo.
Mi piacerebbe se questo thread fosse la navetta che accoglie tutti coloro che come me non hanno ancora capito niente dell’aglianico ma lo vogliono almeno frequentare. Variabile dopo variabile, fesseria dopo fesseria, assaggio dopo assaggio.
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de magistris il 12 set 2012 12:31, modificato 6 volte in totale.
Paolo De Cristofaro
http://www.tipicamente.it/Ci si può divertire anche senza alcool. Ma perché correre il rischio? (Roy Hodgson)
Auspico una guida che non metta i vini DRC al vertice. Sarà la migliore. (Edoardo Francvino)