Invece di dati, oggi pubblico un brano di questo libro, ambientato nei luoghi d'infanzia dello scrittore, tra il Kentucky dei montanari poveri e il basso Ohio della deindustrializzazione:
https://thebookadvisor.it/recensioni/segnalibri/elegia-americana-di-j-d-vance-recensione-libro/brano che descrive l'incapacità di venire a patti con il mondo che ci circonda e che alza il livello di competenze necessario, soglia alla quale si giunge soprattutto col duro lavoro, cosa che sembra essere sempre più ignorata da troppi anche nel nostro paese.
Da ragazzi, io e i miei amici non ci rendevamo conto di quanto il mondo fosse cambiato. Il nonno aveva smesso di lavorare pochi anni prima, possedeva un pacchetto di azioni Armco e si vedeva accreditare tutti i mesi una bella pensione. L'Armco Park restava il centro ricreativo più elegante e più esclusivo della città, e l'accesso al parcheggio privato era uno status symbol; indicava che vostro padre (o vostro nonno) faceva un lavoro di tutto rispetto. Non mi era mai passato per l'anticamera del cervello che l'Armco potesse non rimanere lì per sempre a finanziare borse di studio, a costruire parchi e a organizzare concerti gratuiti.
Eppure, pochi dei mie amici avevano voglia di andarci a lavorare. Da piccoli, avevamo gli stessi sogni di tutti gli altri bambini: volevamo diventare astronauti, giocatori di football o star del cinema d'azione. Io volevo fare l'istruttore di cani, che all'epoca sembrava del tutto ragionevole. Arrivati alle medie, volevamo diventare veterinari, medici, predicatori o uomini d'affari. Ma non metalmeccanici. Persino alla scuola elementare Roosevelt - per via della suddivisione geografica di Middletown, quasi nessun genitore di quegli alunni aveva frequentato l'università - i bambini non volevano fare gli operai, anche se questa scelta significava assicurarsi una vita rispettabile da classe media. Non abbiamo mai pensato che trovare un posto all'Armco si potesse considerare un colpo di fortuna. Per noi l'Armco era una realtà scontata.
Molti ragazzi danno l'impressione di pensarla così ancora oggi. Alcuni anni fa ho parlato con Jennifer McGuffey, un'insegnante del liceo di Middletown che lavora con i giovani a rischio. "Tanti studenti non sanno proprio come funziona in giro", mi ha detto scuotendo la testa. "Vogliono diventare giocatori di baseball ma non giocano nemmeno nella squadra del liceo perché l'allenatore li tratta male. Poi ci sono quelli che non vanno bene a scuola e quando chiedi loro cosa vorrebbero fare nella vita, ti parlano dell'AK. "Be', posso sempre trovarmi un posto in AK. Ci lavora mio zio." È come se non riuscissero a collegare la situazione in cui si trova questa città con la rarefazione dei posti di lavoro nell'AK". La mia prima reazione è stata: "Ma non sanno come va il mondo? Non hanno visto cambiare la città sotto i loro occhi?". Ma poi mi sono detto: "Se non l'abbiamo capito noi, perché dovrebbero capirlo loro?".
Per i miei nonni, Armco era sinonimo di benessere: il motore economico che li aveva portati dalle colline del Kentucky alla classe media americana. Mio nonno amava quell'azienda e conosceva tutte le marche e tutti i modelli di automobili costruite con il suo acciaio. Anche dopo l'abbandono delle scocche in acciaio da parte di quasi tutte le case automobilistiche americane, il nonno si fermava di fronte a una rivendita di auto usate tutte le volte che ci vedeva una Ford o una Chevy. "Questo acciaio l'ha prodotto Armco", mi diceva, lasciando trasparire un sincero orgoglio.
Al di là di quell'orgoglio, non ci teneva proprio che andassi a lavorare lì. "La tua generazione si guadagnerà da vivere con la mente, non con le mani", mi disse un giorno. L'unico lavoro accettabile all'Armco era quello di ingegnere; nessuno voleva più fare il saldatore. Tanti altri genitori e tanti altri nonni di Middletown la pensavano nello stesso modo. Per loro, il sogno americano richiedeva una incessante spinta in avanti. Il lavoro manuale era rispettabilissimo, ma era il lavoro della loro generazione: noi dovevamo fare qualcos'altro. Per salire nella scala sociale, bisognava cambiare mestiere. E bisognava andare all'università.
Eppure nessuno pensava che non andare all'università fosse qualcosa di vergognoso o di negativo. Il messaggio non era esplicito; gli insegnanti non ci dicevano che eravamo troppo stupidi o troppo poveri per farcela. Ciò nonostante, si sentiva dappertutto; era come l'aria che respiriamo: nessun membro della nostra famiglia ci era mai andato. I nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori stavano benissimo a Middletown, quali che fossero le loro prospettive di carriera; non conoscevamo nessuno che frequentasse qualche prestigiosa università di un altro stato; e tutti conoscevano almeno un giovane adulto sottoccupato o disoccupato.
A Middletown, il 20 per cento degli iscritti al primo anno delle superiori non arriva al diploma. La stragrande maggioranza degli iscritti all'università non si laurea. Praticamente nessuno la frequenta fuori dall'Ohio. Gli studenti non si aspettano granché da sé stessi, perché gli altri non si aspettano granché da loro. Molti genitori assecondano questo fenomeno. Non ricordo di essere mai stato rimproverato per un brutto voto fino al liceo, quando la nonna cominciò a interessarsi alla mia performance scolastica.
C'era, e c'è ancora, l'idea che quelli che ce la fanno si possano dividere sostanzialmente in due categorie. La prima è quella dei fortunati: vengono da famiglie ricche che hanno i contatti giusti, e la loro vita era già indirizzata bene quando hanno visto la luce. La seconda è quella dei meritevoli: sono nati con un cervello fino e non potrebbero fallire neanche se ci provassero. Poiché a Middletown pochissimi rientrano nella prima categoria, la gente dà per scontato che tutti quelli che ce la fanno siano intelligentissimi. Per il cittadino medio di Middletown, il duro lavoro non conta quanto una bella testa.