L'altra sera abbiamo fatto una bevuta delle nostre, il solito gruppo milanese diviso da faglie nette tra ortodossi (come me) e naturalisti. Pippuz ad un certo punto della serata ha citato una conversazione avuta con un ristoratore dotato di una cantina bella e interessante che gli disse che non si poneva più alcun dubbio su vini con volatile accentuata, o puzze particolari, o acidità in eccesso, cose che capitano spesso con i vini "naturali"; e che, secondo lui, quei ragazzi che entravano nel suo locale per bere QUEI vini e niente altro, sarebbero stati il futuro del vino.
Dopo un po', incluse alcune stappature di vini "naturali", il subconscio ha finito di rimuginare su quanto detto e mi è scattato il momento Sex and the city.
Si, quel momento in cui Carrie Bradshaw (Sarah Jessica Parker, la ricciolina) si metteva al computer a fare il suo lavoro, da giornalista, e rifletteva sui messaggi forti della giornata.
Mi sono detto: è giusto accettare il cambiamento a prescindere? E' corretto chiedere che tutti i vini diventino espressione solo di se stessi, di una convulsione semianarchica di qualche lievito gozzovigliante, o invece volere che siano guidati su una strada precisa?
Ma soprattutto, è la mancanza di tecnica, una tecnica essa stessa?
Perchè, ora, va bene che Robinot è uno dei fari del MoVimento (alludo
) naturalista; ma che mi si presenti con un naso che puzza di succhi gastrici (poi ripulitisi) e una bocca talmente sbilanciata sul duetto acidità/sapidità da risultare per me pressoché imbevibile, non mi sta per nulla bene, e il contrasto con chi lo ha eletto vino della serata è stridente.
Io resto e resterò sempre dell'opinione che un vino è buono quando è buono, a prescindere da come sia stato fatto. Non mi interessa il metodo, per assurdo potrebbero avere usato anche i kit fai da te. E per storia e gusto personali preferisco l'equilibrio tra le componenti, o al limite un modesto disequilibrio che dia una spinta o soprattutto una varianza, una novità rispetto alla norma.
Pertanto, vedere incensato un vino così palesemente scentrato, unito al commento del ristoratore, mi ha fatto riflettere sulla concezione, sul modello di vino che altri, diversi da me, hanno.
Sono queste semplici evoluzioni del gusto, scandite dallo stesso pendolo che ha visto tante bottiglie trasformarsi in caricature boteriane per compiacere Parker e i mercati nordici? Che poi è oscillato in direzione opposta, quella della mineralité (che si, anche in Francia è diventata un mantra)? E che ora è ruotato a 90 gradi fuori dal piano dell'eclittica, entrando nella quarta dimensione enologica in cui albergherà per un decennio almeno?
O è una moda passeggera, destinata però (come la barrique ovunque) a lasciare un sedimento culturale sulle sperimentazioni fatte, dimenticando le punte estreme, e a incrementare il bagaglio strumentale della viticoltura?
Vedremo nel 2025 un Franciacorta prodotto con metodo ancestrale e lieviti indigeni?
Please, discuss.