Messaggioda zampaflex » 20 nov 2023 15:35
Articolo di Fubini. Spoiler: parla male di Hamas. Ma documentando.
Nel pieno della guerra drammatica che infuria a Gaza c’è una domanda di carattere economico che non può essere elusa, perché serpeggia. In Italia, come nell’opinione pubblica internazionale. La esprimo con una sintesi senz’altro eccessiva: l’odio verso Israele esploso il 7 ottobre può essere almeno in parte spiegato con l’impoverimento della Striscia, a sua volta causato dal blocco alla frontiera imposto dallo Stato ebraico dal 2007?
L’analisi sui dati dell’economia della Striscia
Anticipo subito che la mia risposta è negativa. Senza entrare in questioni politiche, religiose o di valori - non competono a questa newsletter - un’analisi dei dati e delle informazioni disponibili sull’economia e la società di Gaza prima della guerra suggerisce un quadro diverso. Il blocco imposto da Israele era molto meno stringente di quanto non si dica di solito, e lo era sempre di meno. Gaza era un posto di grande povertà e alta disoccupazione, ma soprattutto di sfacciate diseguaglianze. E la povertà del territorio si spiegava, più ancora che con i filtri alla frontiera con Israele e l’Egitto, con quello che l’economista Daron Acemoglu e l’antropologo James Robinson chiamano nel loro classico “Perché le nazioni falliscono” un «sistema estrattivo». Gaza era povera, in buona parte, perché Hamas la gestiva così come una struttura mafiosa controlla un territorio da essa profondamente infiltrato: ogni risorsa è taglieggiata, tutto è piegato ai fini di arricchimento e di potere di chi controlla il sistema con la forza e l’intimidazione. Del resto gli abitanti stessi della Striscia lo avevano capito. In un sondaggio credibile preso da Arab Barometer fra il 28 settembre e il 6 ottobre, due terzi della popolazione palestinese locale afferma di non avere fiducia o «non molta fiducia» in Hamas; il 72% dice che nel territorio c’era un livello elevato o medio di corruzione. Hamas, del tutto disinteressato al benessere degli abitanti, depredava le risorse di Gaza.
Il blocco e gli equilibri precari
La prima questione è quella del blocco di Israele (e dell’Egitto). Quanto era stringente? Per scelta politica, sempre di meno. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva scommesso sul fatto che avrebbe avuto solo benefici politici, se avesse permesso ai leader di Hamas di arricchirsi gestendo Gaza in tranquillità: quelli erano i suoi nemici ideali, perché nel loro estremismo gli permettevano di non riaprire la questione palestinese. Netanyahu illudeva che i leader di Hamas si sarebbero accontentati di arraffare miliardi e di controllare la Striscia, assicurandone un qualche precario equilibrio economico.
Racket e affari segreti: così la mafia di Hamas sfruttava la Striscia
Di certo il blocco si era molto allentato. Il grafico che vedete qua sopra è prodotto dall’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari e mostra il numero di uscite autorizzate da Gaza verso Israele negli ultimi anni. Non erano mai state alte come nel 2022 da diciotto anni, da ben prima del blocco alla frontiera seguito alla violenta soppressione del ruolo dell’Autorità palestinese nella Striscia ad opera di Hamas nel giugno del 2007. Si erano registrate quasi mezzo milione di uscite da Gaza verso Israele: all’83% erano pendolari che lavoravano in Israele, per il resto pazienti ospedalieri ammessi a curarsi in Israele. Anche l’Egitto, che manteneva il blocco dal 2007 come lo Stato ebraico, lo aveva ammorbidito: 145 mila uscite nel 2022, contro 14 mila nel 2015. Gli ingressi da Gaza in Israele erano quadruplicati perché lo Stato ebraico aveva fortemente aumentato i permessi di lavoro per gli abitanti della Striscia, saliti a 18.500 nella prima metà del 2023. E poiché il compenso medio di questi pendolari era di circa quattro volte più alto degli occupati nella Striscia stessa, il flusso di nuovo reddito da posti di lavoro in Israele era di quasi un decimo della massa salariale del territorio palestinese: un impatto molto forte.
Israele aveva attenuato il blocco economico anche in altri modi. L’anno scorso la frontiera era rimasta aperta per 237 giorni ed erano passati 74 mila camion carichi di prodotti. Nella prima metà del 2021 erano entrati da Israele circa tremila camion alla settimana pieni di merce: non esattamente un embargo. Cogat (un’unità del ministero della Difesa israeliano che si occupa delle questioni civili con i territori palestinesi) registra che erano stati cancellati dalla lista dei prodotti la cui vendita a Gaza era proibita molti beni a doppio uso militare e civile: cemento, pompe idrauliche, pannelli solari, materiale di saldatura, cavi d’acciaio, tecnologie di drenaggio (molti dei quali, secondo l’ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana Yigal Carmon, usati poi da Hamas per la sua rete di tunnel). Sempre Cogat registra che di recente gli occupati nel settore tessile di Gaza erano più che decuplicati a 20 mila persone, l’export della pesca era raddoppiato ed era cresciuto anche quello agricolo. Gaza aveva anche un livello di sviluppo umano superiore anche a quello di Paesi del Medio Oriente dal reddito molto più alto. Dal Factbook della Cia si vede che aveva una mortalità infantile simile a quella della Giordania e più bassa di quella della Turchia; aveva una mortalità materna al parto più bassa di quella della Cina, della Tailandia, di Cipro e del Messico, oltre che di Tunisia e Algeria; aveva più medici per mille abitanti del Marocco o dell’Iran.
Le diseguaglianze e l’avidità di Hamas
Niente di tutto questo rimuove il fatto che Gaza era povera. Lo era, uno dei territori dalla massima indigenza nel Medio Oriente. Sempre secondo il Factbook della Cia, appena 5.600 dollari di reddito per abitante nel 2021 e uno dei tassi di disoccupazione più alti al mondo. E in parte il blocco mantenuto da Israele ed Egitto c’entra, è chiaro. Ma intanto stava succedendo anche qualcos’altro: nasceva sul posto un’economia dei consumi opulenti, per i ricchi della Striscia. Memri, il centro di intelligence open-source di Yigal Carmon, mi ha mostrato servizi della tv turca, di Al-Arabiya, di Al-Jazeera araba o pubblicità locali che mostrano ristoranti costosi, mercati stracarichi di beni voluttuari e la nascita di ricercati resort turistici. «La gente compra come se non ci fosse alcun assedio», proclama il servizio di Al-Arabyia. Accanto alla povertà, c’era a Gaza un’economia dell’affluenza.
Com’è possibile? In parte lo è perché - stima l’ex agente del Mossad e dello Shin Bet Uzi Shaya - l’oligarchia di Hamas catturava per sé parte dei 2,3 miliardi di dollari di aiuti dall’estero (più di mille dollari per abitante all’anno) che arrivavano ogni anno nella Striscia: in parte, anche denaro liquido dell’Iran o del Qatar trasportato da spalloni da Istanbul, attraverso l’aeroporto di Tel Aviv, fin dentro Gaza.
In parte lo è perché Hamas gestisce quello che il Tesoro americano definisce un «portafoglio segreto di investimenti»: secondo Shaya, l’ex agente dell’intelligence israeliana, attività per circa 500 milioni di dollari in investimenti immobiliari in Qatar, negli Emirati Arabi Uniti, in Sudan o in Algeria.
E in parte è possibile perché Hamas taglieggiava - e taglieggia - fra il 20% e il 40% di ogni import, export e ogni provento di attività economica di abitanti di Gaza fuori e dentro la Striscia. Quello non è un movimento nazionalista. E non è solo un’organizzazione terroristica: è un cartello mafioso che arricchisce se stesso e impoverisce il territorio sul quale insiste. Nel frattempo costruiva sotto la Gaza civile un’infrastruttura di guerra e preparava il 7 ottobre.
Eppure Netanyahu aveva persino mandato il generale del suo esercito Herzi Halevi in Qatar a dare il suo placet perché la famiglia regnante degli Al-Thani continuasse a finanziare Hamas. Me lo confermano sia Yigal Carmon che Uzi Shaya. Credeva di avere un patto implicito con i capi di Hamas, basato sul denaro. «Abbiamo risposto in ritardo», riconosce Shaya. E aggiunge: «Ma questo è un eufemismo».
Non progredi est regredi