Messaggioda tenente Drogo » 01 set 2025 13:09
e poi Anita Likmeta, imprenditrice albanese naturalizzata italiana e autrice de "Le favole del comunismo", memorie della sua infanzia in Albania
e poi credo che non ho altro da aggiungere
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"Leggo Ferrara e Sofri e non scelgo un pulpito: li ascolto entrambi perché in ciascuno c’è un tratto di verità che l’altro non può contenere, e tuttavia, proprio mentre mi riconosco in parte in ognuno, mi è impossibile abitare le loro totalizzazioni speculari - l’una che chiama legittima difesa ciò che rischia di normalizzare la crudeltà, l’altra che scorge nel presente il suicidio di Israele fino a farne un destino - mentre tutt’intorno ronzano gli sciacalli del risentimento, i professionisti del colpevole unico, i sacerdoti dell’indignazione intermittente. Difendo Israele perché sono ebrea, perché Israele è l’unica democrazia di quell’area e appartiene all’Occidente non come decorazione ma come responsabilità, perché la sua esistenza non è un’opinione negoziabile; e però non mi sono indifferenti i morti, nessuno: non quelli del 7 ottobre, che hanno lacerato il patto elementare dell’umano, né quelli palestinesi, macerie su macerie che chiedono conto non alle metafore ma alle scelte. È da questa doppia fedeltà che nasce la mia linea, che non è equidistanza e non è cerchiobottismo, ma una ben più dura disciplina del limite: la difesa non può divorare ciò che difende, la memoria non è una licenza, il dolore è asimmetrico ma la dignità è simmetrica, e una democrazia si giudica dal vincolo che impone alla propria forza, non dall’eloquenza con cui la celebra. Non mi sottraggo alla frase che scandalizza gli occhi allenati al bianco e nero: con Israele nella sua legittimità e nel suo diritto alla sicurezza, con i palestinesi nella loro dignità e nei loro diritti politici; non con Netanyahu, che ha trasformato la necessità in dottrina e la dottrina in impunità, e non con Hamas, che ha fatto del terrore una grammatica e del civile un mezzo. So che questo è intollerabile per chi ha bisogno di un assoluto: a chi invoca la sproporzione come virtù sembrerà resa, a chi invoca il naufragio morale come verdetto sembrerà complicità; e tuttavia è l’unica postura che non tradisce né l’intelligenza né la coscienza, perché prende sul serio ciò che la retorica rimuove - che i valori sono plurali e confliggenti, e che la politica non è l’arte di assolutizzarne uno ma la fatica di limitarli tutti, tenendoli in un equilibrio non pacificato ma umano. Non mi chiedo se, nell’istante del fuoco, un soldato abbia il diritto di difendersi: so che ce l’ha; mi chiedo se uno Stato sappia ancora incarnare quel diritto senza trasformarlo in una eccezione permanente, se sappia distinguere il necessario dal gratuito, la forza dalla crudeltà, il nemico dall’ostaggio, l’obiettivo dal volto; e mi chiedo, specularmente, se la causa palestinese vorrà mai esistere al di fuori dell’idolatria del martirio e della delega a chi usa i propri figli come scudi. Il resto è rito: la liturgia del “mai più” usata come lasciapassare, la teologia della colpa delegata, l’algoritmo morale che seleziona solo le vittime utili. Io non ho una via breve da offrire, ho però un criterio che non chiede fede ma responsabilità: ridurre la crudeltà prevedibile e vincolare la forza a questo compito minimo; liberare gli ostaggi non come parentesi umanitaria ma come imperativo politico; riconoscere che nessuna giusta causa sopravvive a lungo a mezzi ingiusti e che nessun mezzo “puro” redime una causa nichilista; tenere fermo che il giudizio non si sospende “perché è guerra” e che la guerra, proprio per questo, o resta dentro il perimetro del diritto o si mangia la democrazia che dice di proteggere. È una scelta più faticosa che seducente, perché mi lascia nel dubbio e nella paura, e tuttavia è qui che io decido di stare: non nel conforto dell’odio rituale, non nella neutralità della distanza, ma nel luogo scomodo in cui si difende Israele e insieme si difende l’umano, in cui si rifiuta la pornografia del dolore e si pretende che il potere porti il peso delle proprie decisioni; un luogo dove memoria e futuro non si assolvono a vicenda, e il presente non è un tribunale metaforico ma un banco di prova concreto - se saremo capaci di restituire alla forza il suo limite e alla dignità il suo rango, allora forse tornerà politicamente dicibile ciò che oggi è solo formula esausta; se non lo saremo, avremo vinto gli argomenti e perso noi stessi."