Messaggioda zampaflex » 28 dic 2021 10:20
Migranti, boom dei permessi di lavoro. Con la spinta degli imprenditori leghisti.
I perché dei 70 mila ingressi annunciati da Draghi. Dopo sei anni in cui sono stati meno della metà.
Se, come spiega l’Ecclesiaste, c’è un tempo per demolire e un tempo per costruire, l’Italia che dovrà ricostruirsi dopo la pandemia scopre di avere bisogno di braccia: e braccia di migranti, data la nostra demografia.
Siamo un Paese di pensionati. Il decreto flussi, che regola il numero di ingressi degli stranieri per motivi di lavoro, rispecchia l’atteggiamento della comunità nazionale in proposito e uno sguardo alle sue sequenze aiuta a capirne meglio i riflessi sulla
scelte della politica: tra il 2007 e il 2009, a causa delle paure derivate dalla Grande recessione, il numero d’ingressi consentito calò in fretta, da 170 mila a 80 mila; alla metà degli anni Dieci, sull’onda del terrore generato dagli attentati
jihadisti e dell’ascesa dei movimenti sovranisti in un’Italia stagnante, scese ancora, a poco più di 30 mila, per stabilizzarsi a quel livello per ben sei anni di seguito. Fino al 2020, anno uno del Covid: ma proprio la pandemia sta cambiando tutto. Anche gli orientamenti di una parte vitale della base leghista, la stessa turbata non troppo tempo fa dagli sbarchi e mobilitata dall’indignazione per i molti sans papiers d’Italia.
La svolta del governo La risalita nel decreto di quest’anno, ai «70 mila ingressi» annunciati da Mario Draghi martedì, segna un’inversione di tendenza. Netta: gli accessi diventano più del doppio rispetto a prima. Eppure, contrastata: perché gli imprenditori (segnatamente quelli del Nord, base elettorale della Lega e motore industriale del Paese) chiedevano uno sforzo maggiore e le prime cifre filtrate la scorsa settimana parlavano infatti di almeno 81 mila permessi programmati: per concludere l’accordo è stato invece necessario tagliarne undicimila. Anzi qualcuno di più, perché il decreto si ferma al tormentato numero finale di 69.700: una soglia psicologica oltre che politica.
Sulla questione s’è consumata una sorda schermaglia che ha ritardato di una settimana la firma e ha certamente acuito le tensioni dentro la maggioranza. Draghi ha promesso per il 2022 un nuovo decreto, s’intuisce non troppo in là nel tempo, in modo da venire incontro alla spinta che sale dai territori.
Osserva l’industriale bergamasco dell’alluminio Paolo Agnelli che, come presidente di Confimi, rappresenta 45 mila imprese manifatturiere: «Il decreto flussi a 70 mila permessi è timido, insufficiente. Non vorrei che le forze politiche che tradizionalmente rappresentano i produttori del Nord stiano perdendo il polso dei territori». Agnelli in un passato recente aveva concesso aperture di credito alla Lega su scelte forti come Quota 100. Ma stavolta è netto: «Già a giugno le imprese della nostra associazione denunciavano difficoltà nel reperire 98 mila lavoratori. Che problema hanno a dare più permessi?», si chiede.
I bisogni del Nord Non tutta la Lega è indifferente, al contrario. Roberto Marcato, fondatore della Liga Veneta, assessore allo Sviluppo economico nella giunta di Luca Zaia, non chiude a un’immigrazione ragionata. «Si tratta di gestire i flussi: gli arrivi
devono essere strettamente proporzionali alla richiesta di manodopera—osserva —. Ma gli imprenditori adesso hanno bisogno di lavoratori non qualificati che in Veneto si fatica a trovare. Potremmo anche pensare a permessi a tempo, ci serve un approccio razionale».
Di certo oggi la materia è una grande area grigia, un limbo in cui si impigliano i lavoratori stranieri e gli imprenditori italiani. Stefano Allievi è docente all’università di Padova e tra i massimi esperti di migrazioni e lavoro: «Il punto non è se facciamo un
decreto flussi di 81 mila o di 70 mila ingressi, ma che va cambiato modello: facendo accordi con i Paesi di partenza
che in cambio ti diano una mano a trattenere gli irregolari o ad accogliere i rimpatri. I migranti arriverebbero da regolari in aereo anziché dopo un anno o due di viaggi della disperazione e navigazioni precarie, coi segni fisici e mentali di violenze e torture: avremmo anche livelli di integrazione più facili ed elevati».
Secondo le proiezioni (prepandemia) di Eurostat, l’Italia perde al 2040 quasi sei milioni di adulti in età di lavoro a causa della demografia avversa. Il problema è già così acuto che a Cartigliano, in provincia di Vicenza, la locale associazione di imprese ha lanciato il «Progetto Giano»: sostegni e aiuti alle famiglie locali perché si è notato che troppo spesso le coppie rinunciano
ad avere il secondo o il terzo figlio. Ora il cambio di passo impresso da Draghi è stato sollecitato dalle associazioni di imprese dell’agricoltura, del turismo, delle costruzioni e dei trasporti. E le resistenze di chi nel centrodestra paventa la sottrazione di
opportunità di impiego per i disoccupati italiani si scontra sempre più a un cambio strutturale delle aspettative dei giovani italiani. Dario Loison, un imprenditore dolciario di Vicenza, elettore della Lega nel 2018, con le sue imprese è cresciuto del 30% nel biennio pandemico esportando in 40 Paesi. Ma fatica a trovare giovani italiani da inserire in azienda: «A causa dell’uso eccessivo dei device digitali non sanno più scrivere, non riescono a ricordarsi cosa hanno fatto tre giorni fa — dice —. Dunque, abbiamo bisogno dei flussi, ovviamente di persone selezionate e capaci di integrarsi».
Ma sta davvero cambiando l’umore delle constituency leghista e di destra nei territori, mentre le leadership a Roma restano ancorate ai temi di sempre? La stagione di Draghi sta destrutturando anche l’ultima roccaforte ideologica del sovranismo? Di certo il pragmatismo del premier trova riscontri nei territori più dinamici del Paese. Gianni Righetti ha due aziende di autotrasporto che muovono quaranta camion da container ogni giorno da Mirandola (Modena), e intanto si impegna in Fratelli d’Italia. «Allargare le maglie dell’immigrazione ha senso — riconosce —. Nel nostro mestiere i ragazzi italiani giovani, mediamente istruiti, faticano a adattarsi. Essere di destra non vuol dire essere razzisti».
Certo il viaggio per il Paese nell’inverno della sua demografia resta impervio. Secondo Luigi Cannari di Banca d’Italia «nel 2060 il Pil italiano sarà sceso dell’11,5% con le attuali tendenze». I nostri permessi di lavoro concessi ci collocano appena sopra la Grecia in Europa. Il quadro è stato aggravato dai pessimi risultati della sanatoria che, varata nel 2020, ha scontato ritardi burocratici, carenze di personale, una linea non sempre nitida politicamente. A fine ottobre, dati impietosi fotografavano lo stallo nelle grandi città: a Milano con 2.317 permessi per lavoro richiesti su 25.900 domande allo sportello, a Roma con 1.112 su 16.192, a Napoli con 1.200 su 17.000. Così il ricercatore giuslavorista William Chiaromonte (dell’Università Firenze) parla di «procedura labirintica, macchinosa». Anche lui punta l’indice contro il Testo Unico sull’immigrazione:
«Il sistema non funziona, tanto che si ricorre alle regolarizzazioni ex post». In linea di massima in Italia per lavorare
si entra da clandestini o da finti turisti e si aspetta che succeda qualcosa. «Se Draghi regge, aspettiamo il decreto 2022», sussurra un consulente del ministero del Lavoro che in queste ore si è battuto per aumentare i flussi. Non la prima incombenza del premier, certo. Ma forse nemmeno l’ultima.
Non progredi est regredi