Torniamo all'economia con un estratto di un articolo letto ieri sul Foglio a proposito del clima.
Da Glasgow usciranno accordi vincolanti per combattere la deforestazione e, soprattutto, per tagliare in misura drastica le emissioni “fuggitive” di metano, un potente gas serra. Oltre quaranta nazioni, tra cui la Polonia (ma non gli Usa), hanno accettato di programmare l’abbandono del carbone negli anni Trenta del Duemila. Altri venti hanno promesso di cancellare i finanziamenti pubblici ai progetti per l’estrazione di combustibili fossili all’estero in assenza di adeguate misure di mitigazione delle emissioni.
Insomma: il bicchiere è mezzo pieno.
Il medesimo bicchiere è mezzo vuoto: gli impegni assunti finora non basteranno a garantire che le temperature non superino
l’asticella di 1,5 gradi al di sopra dei livelli preindustriali, e neppure quella dei 2 gradi. E’ comunque probabile che, se rispettati, il termometro di fermerà tra 2,1 e 2,3 gradi: ben lontano, insomma, dagli scenari più allarmisti, che prevedono un riscaldamento dell’ordine di 4-5 gradi e spesso si basano su scenari emissivi inverosimili. Tra l’altro, gli ultimi dati rivelano che abbiamo pesantemente sottostimato gli assorbimenti di CO2 da parte del suolo. Tenendo conto delle informazioni più
recenti, si scopre che le emissioni complessive negli ultimi dieci anni non sono cresciute.
E’ ancora presto per trarne conclusioni definitive, visto che le incertezze sono tante, ma certo questo dà fiato a quegli studiosi che da tempo mettono in guardia contro assunzioni troppo pessimistiche sull’andamento delle emissioni future. E’ il caso di Zeke Hausfather e Glen Peters su Nature e il team della Banca d’Italia che si occupa di economia del clima (si veda “Banche centrali, rischi climatici e finanza sostenibile”, marzo 2021
https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2021-0608/index.html). Non solo: il capoeconomista dell’Agenzia internazionale dell’energia, Fatih Birol, ha mostrato che – tenendo conto del nuovo pacchetto che sta emergendo da Glasgow – lo scenario più probabile punta verso un riscaldamento di 1,8 gradi.
[Meno male, aggiungo]
Tra il 1990 e il 2019 il pil globale è cresciuto, in termini reali, del 75 per cento. Le emissioni di CO2 sono aumentate solo del 10 per cento. Nelle aree più ricche del globo, gli Usa e l’Unione europea, il reddito nazionale è incrementato all’incirca del 55 per cento. Nello stesso periodo di tempo, le emissioni pro capite nel ricco Occidente sono addirittura diminuite, con un calo del 31 per cento in Europa e del 21 per cento in America, dove tuttavia restano due volte e mezzo più alte che nel Vecchio Continente. Nel paese del miracolo economico, la Cina post-maoista, il pil pro capite si è moltiplicato per dieci, passando da
meno di 1.500 dollari a oltre 16.000, mentre le emissioni sono sì salite, ma solo di tre volte, raggiungendo grossomodo il livello europeo.
Le fonti rinnovabili saranno il pivot della transizione energetica.
Secondo il World Energy Outlook dell’Agenzia internazionale dell’energia, per arrivare a net zero la generazione di energia eolica e fotovoltaica dovrà passare dagli attuali poco più di 2.000 TWh annui a 12.000; e anche nello scenario più pessimista arriverà a circa 8.000 TWh. Sarebbe però ingenuo illudersi che possiamo cavarcela affidandoci solo alle rinnovabili e all’elettrificazione. E, se anche così fosse, sarebbe comunque opportuno avere un “piano B”. Come ha detto Mario Draghi a Glasgow, “nel lungo periodo le energie rinnovabili possono avere dei limiti, e quindi occorre investire in tecnologie innovative in grado di catturare il carbonio”.
Il premier ha, in tal modo, rotto un tabù: l’utilizzo delle tecnologie per la cattura, lo stoccaggio e l’utilizzazione della CO2 (Ccs&u). La Ccs&u rappresenta una delle frontiere più importanti per almeno due ragioni distinte: una di breve, una di lungo periodo. Nel breve periodo, essa può contribuire a rendere (più) sostenibile l’utilizzo dei combustibili fossili, specie nei settori industriali nei quali essi sono tecnicamente o economicamente difficili da sostituire (il cemento, la siderurgia, il vetro…).
In quegli ambiti, l’impronta carbonica può essere ridotta sia direttamente, catturando le emissioni di CO2 (e di metano) quando vengono generate, sia indirettamente, sostituendo il gas naturale con l’idrogeno.
Questo ci porta al secondo tabù: quanto più siamo seri nell’intento di eliminare il carbone, tanto più dobbiamo venire a patti col gas come combustibile per la transizione. Il gas serve anche a offrire flessibilità ai sistemi elettrici, che ne hanno tanto più bisogno ai fini del bilanciamento quanto più le rinnovabili guadagnano rilevanza. Infatti, la stessa Agenzia internazionale dell’energia prevede una riduzione della domanda di gas nel 2050, solo dopo che essa avrà conosciuto un periodo di ulteriore espansione rispetto ai livelli attuali.
Molti pensano che sia arrivato (o tornato) il tempo dello stato imprenditore, con i governi che dovrebbero individuare le tecnologie preferite e promuoverne direttamente l’adozione. E’, in buona misura, la strategia seguita dall’Unione europea con le fonti rinnovabili. L’Italia, per esempio, spende oltre 12 miliardi di euro l’anno per effetto degli incentivi impegnati anni fa, il cui ciclo continuerà ancora a lungo, per un totale cumulato stimabile in 200 miliardi di euro. A livello europeo, la spesa annua per gli incentivi alle fonti rinnovabili è all’incirca di 60 miliardi di euro, corrispondenti a un costo implicito attorno ai 100 euro / tonnellata di CO2 abbattuta. I sostenitori di questa politica argomentano che è solo grazie all’enorme impegno finanziario europeo (e, in misura minore, di altri paesi) se oggi le rinnovabili sono (quasi) competitive. Per esempio, negli ultimi dieci anni il costo dei pannelli fotovoltaici è sceso dell’82 per cento. Resta la domanda: il gioco è valso la candela? In Europa abbiamo un meccanismo di scambio delle quote di emissione, che serve ad allocare l’onere dei tagli là dove essi sono
meno costosi. Il prezzo medio di un certificato, nel periodo 2010-2020, si è aggirato nel range 10-20 euro / ton CO2. Significa che, a parità di spesa, per ogni tonnellata di emissioni evitate grazie ai sussidi avremmo potuto tagliarne dieci in altri ambiti.
Perfino oggi, che i certificati hanno raggiunto livelli record di 60 euro e più, i sussidi creano arbitraggi, ottimi guadagni per alcuni, ma, collettivamente, un pessimo affare per l’ambiente.