Messaggioda Wineduck » 31 gen 2015 20:46
La sera del 5 gennaio a casa mia, con qualche amico fra cui il blogger-docente AIS Riccardo Margheri, abbiamo aperto alcune bottigliette. C'era anche una coppia (assoltamente alla cieca) di Chateauneuf du Pape. Per la precisione:
- Domaine de Marcoux - Chateanuef du Pape Vieilles Vignes 2000
- Usseglio Pierre et fils - Châteauneuf du Pape Cuvée de mon Aïeul 2000
Riporto di seguito le stupefacenti note di Riccardo che, pur non riconoscendo la denominazione, aveva inquadrato perfettamente i due vini:
Chi ama il vino lo sa:il massimo da una degustazione lo si ottiene con la disponibilità alla fascinazione, la capacità di stupirsi, l'umiltà nel mettere in discussione tutto ciò che si sa o si crede di sapere per integrarlo e renderlo vivo con qualcosa di nuovo.
Metti ad esempio una sera a cena a casa di Wineduck, con due vini che sovvertono le gerarchie costituite e sbeffeggiano i preconcetti. Il primo ha un colore non profondo ma luminoso, con una nobile inclinazione verso un granato ancor vivo. Lo accosti al naso e pensi al piacere della consapevolezza di degustare un grande Pinot Noir, ti pervade quel noto senso di appagamento, di star percorrendo una tappa importante del tuo cammino in mezzo ai bicchieri. Il naso ha un po' di brett d'ordinanza (un tot in effetti...), ma come auspicabile e previsto l'ossigenazione consente una maggiore focalizzazione: e quanto si intravedeva sulle prime (fragranza di frutto nero, griotte) si declina verso una fragrante florealità, una inconsulta ma gradevolissima, quasi ammiccante nota di fragola matura, una balsamicità delicata che staglia i toni più fruttati. Al palato, già sulle prime magnifica compiutezza, oserei dire una consequenzialità nelle interazioni tra tutte le componenti dell'architettura gustativa (un paragone? l'interno della Basilica di Santa Croce a Firenze). Non é he non sia avvolgente, anzi, è un vino falsamente sottile: lo sembra per la pervasività di un tannino dalla finissima trama che satura e appaga senza pesantezza ogni poro del palato; per lo slancio garantito da un'acidità così ben integrata che ne apprezzi l'esuberanza solo per l'abbondante salivazione al fin di bocca; e, last but not least, per l'acidità che verticalizza una fragrante corrispondenza aromatica, sia fruttata sia floreale: essa non esplode, ma gratifica prolungandosi ben al di là di quanto non ci si stanchi di contare. Troppo splendidamente bilanciato per esser solo il risultato di una costruzione enologica. Adamantino e apollineo nella sua perfezione (e meno male che c'è un po' di brett al naso!), rilasciato in gita dal mondo delle idee per la gioia non solo dell'intelletto. E qui il gioco del riconoscimento può spaziare largo: Morey? (per la sapidità) troppo filigranato; Vosne? (per la suadenza) la profondità minerale conduce altrove; Echezaux? non con questa fermezza tannica. Magari un Musigny?
Noto di essermi molto dilungato sul primo vino, ma non è che il secondo non meriti, nelle sue differenze altrettanta attenzione: è un finto semplice. Il colore di leggermente maggiore profondità, e un'impressione di maggiore densità nel bicchiere ben si attagliano a un naso opulento, dolce: è talmente piacevole nella sua maturità che si arriva a paventare (non il massimo per il mio gusto personale) un'impostazione stilistica internazionale, eccessi estrattivi ed invasioni barbariche di legno nuovo. Niente di tutto ciò: la speziatura vagheggia perdizioni orientali, stile erotismo decadente fin de siecle (dopo tutto, il vino è suggestione...); voluttuosamente naufraga in mare di immacolata ciliegia e fragola mature, screziate, con l'ossigenazione, da una più maschia nota terrosa che fa da pendant. Tutto assai mediterraneo, tanto più con le tracce di pasta di olive e la salinità marina che si affollano a seguire. La bocca è opulenta, avvolgente, l'equilibrio si è spostato verso la morbidezza: in realtà dir ciò è però improprio, che il palato ha un impianto naturale e logico nella sua compiutezza quanto il vino precedente. Qui l'alcolicità non appesantisce, puntella; e acidità e sapidità non affogano in questa sorta di lussureggiante barocco ma nitido trionfo di frutta e non solo, anzi, son ben presenti, basta andarle a cercare, dedicare un sorso a far mente locale nell'apprezzarne il ruolo, di come allunghino il portato gustativo, come slancino la beva di un vino potente ma che si distende con grazia invidiabile. Nell'ascoltarne la persistenza al contempo se ne gode l'articolazione aromatica: la mineralità è il filo conduttore di un cammino per niente appiattito sul frutto iniziale, dove tutto ciò che aveva fatto capolino al naso reclama il suo posto anche in bocca. Avvolgente, decadente, anche se fa specie definirlo così per la gioventù che mantiene: Chambolle? No, troppo potente, magari uno Chambertin di un'annata calda sapientemente gestita nello sfruttarne il plus di maturità senza appiattirsi.
Ma di quali mai Pinot Noir si trattava, direte Voi: di due meravigliosi Chateauneuf-du-Pape annata 2000, Chateau de Marcoux Vielle Vignes il secondo, Dom. Usseglio il primo. Splendidi e fratelli nelle loro diversità, figli di vigne vecchie che son vecchie per davvero (anche più di cento anni), di un'annata calda che non spaventa perché un'antica sapienza ne sfrutta il potenziale, di un'enologia poco interventista, umilmente al servizio della terra. Che ci raccontano, parafrasando Haldane, che il mondo del vino non solo è più strano (e splendido) di quanto immaginiamo, ma anche di quanto possiamo immaginare. E che dopo tutto è vero che le vecchie annate si somigliano un po' tutte, quale che sia il vitigno...
"Woke up this morning with a wine glass in my hand - Whose wine? What wine? - Where the hell did I dine? - Must have been a dream - I don't believe where I've been - Come on, let's do it again"
Peter Frampton