Stasera, davanti ad una golosissima bottiglia di Bourgogne Cote d’Or di Pierre Gelin (2020) mi sono posto la domanda cosmica del titolo. Mi capita sempre più spesso di bere pinot nero borgognoni che mi spiazzano per eccesso di goduriosità: Pierre Gelin, Arnaud Chopin, Alain Jeanniard, Joseph Voillot, Sébastien Magnien, solo per citarne alcuni bevuti di recente. Sono vini golosi ad un livello ineguagliabile: cassis, ciliegia, fragola, fragolina di bosco, tannino levigatissimo e poca acidità. C’è materia, c’è finezza, c’è eleganza e soprattutto un piacere sconfinato. Al prezzo di un onesto Langhe Nebbiolo.
Vi chiederete cosa si può volere di più? Forse niente.
Il fatto è che qualcosa mi manca. Forse è l’imprinting della mia educazione sentimentale langarola, o forse è il risultato del mix tra cambiamenti stilistici e cambiamenti climatici in Borgogna (più caldo, più grappolo intero, più macerazione semi-carbonica, ecc. ecc.)
I borgogna di oggi non sono più quelli di una volta, diranno alcuni. Può darsi.
Ma la domanda (oziosa) è un’altra: sotto questa irrestistibile invasione di piacevolezza, non si perde qualcosa? Oppure è questa la cifra del pinot nero, rispetto al più introverso nebbiolo?
Questa la mia domanda metafisica.
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Dov’è finito il Pinot nero?
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