Messaggioda egio » 08 nov 2014 19:52
Domaine Gauby - Coume Gineste 2008: Esistesse un marchingegno per il teletrasporto, avrebbe la forma di questa bottiglia, e la sua etichetta... Già alla prima snasata, all'apertura (giustamente parecchio anticipata rispetto al momento di servirlo a una temperatura adeguamente rispettosa, ossia appena fresca), ci si trova catapultati a camminare tra queste vigne di grenache di oltre 60 anni, arse dal sole, tra sassi e terra asciutta, vento salato di mare, profumi del finocchio selvatico, della camomilla, di agrumi. Col tempo dall'apertura, vuotato energicamente e in malo modo nei bicchieri, le note più affumicate e piriche lasciano spazio ai fiori gialli, al miele amaro, all'aneto. Il tutto sempre sussurrato, mai invadente o caricaturale, ma netto, precisissimo. In bocca è esplosivo, di acido e minerale. Avvolgente senza nessuna concessione a grassezze o mollezze, ma di una verticalità da paura, con una struttura imponente, in un equilibrio che ha del miracoloso. Se bisognasse trovare per assurdo un anello di congiunzione tra i grandi Trebbiano di Valentini e le migliori riuscite di Coulée de Serrant, ecco, a mezza strada ci sarebbe questa bottiglia. Uno dei più bei bianchi bevuti quest'anno, prodotto in quantità da vino di famiglia, ancora giovanissimo.
Mastroberardino - Taurasi Radici 1998: ci son vini che ho amato tanto, e che da anni, per tanti motivi, mi capita purtroppo sempre più raramente di incrociare. E quando succede, mi rimprovero per non frequentarli di più. Quando da giovane studente universitario i pochi soldi guadagnati tirando calci a un pallone dovevano essere utilizzati al meglio, l'ingegno portava a ricercare in luoghi meno battuti e economicamente più abbordabili le emozioni e le sensazioni che i grandi piemontesi, toscani, veneti dispensavano in quantità ma a prezzi già proibitivi. Montalcino e Supertuscan lasciavano spesso il posto alle splendide riserve di Selvapiana degli anni '80; o ai vecchi e mirabili Vigna Monticchio di Lungarotti. il Nord-Est era al massimo il Capo di Stato di Venegazzù, o il Gemola, o il Ronco dei Roseti, giacché la Valpolicella era roba da poche grandi occasioni. E la austera nobiltà, la si cercava più nell'aglianico che nel nebiolo. Ritrovarsi con questo '98 aperto e bevuto così, al volo, senza tanto sussiego, è stato dunque come incontrare per la strada per caso un vecchio amico, e rendersi conto con piacere che è rimasto lo stesso e, anzi, è pure meglio di come il ricordo ce l'avesse consegnato. Nel bicchiere il colore è di un bel granato intenso, che non dimostra per nulla l'età. I profumi son da subito pieni sulle note di frutti rossi e viola, poi escono leggere le note di erbe aromatiche, grafite, sangue. In bocca è un trionfo immediato, invade e pervade il palato con morbida gentilezza e con decisione. Insomma, lo paragono a un vero "signore" di una volta - e quando un campano è signore, è signore come pochi altri al mondo - che la austera e a volte un po' cruda freddezza del galantuomo piemontese sostituisce con la giovialità e la sapiente convivialità dei suoi luoghi di origine, senza mai essere meno che elegante. Insomma, non sarà più quello delle annate mitiche a cavallo tra '60 e '70, ma mi è tornata voglia di ricomprarne, e di incontrarmi più spesso a dialogare con questo vecchio e caro amico. La grande storia del vino italiano passa sicuramente anche da queste bottiglie.