Messaggioda zampaflex » 28 mag 2018 17:23
Se un’amministrazione pubblica vuole comprare una city car può farlo con la convenzione Consip e la paga 7.520 euro, fuori convenzione la paga 9.088, il 17% in più.
Molte scelgono questa seconda opzione. E per furgoni e veicoli multifunzione rinunciano a un risparmio del 25%, a uno del 40% per elettricità, telefoni, carburanti. Un numero ridotto di amministrazioni ricorre al modello Consip, malgrado l’obbligatorietà. Il sistema delle stazioni appaltanti attraverso le quali far passare gli acquisti di beni e servizi della PA, non funziona. Molte amministrazioni continuano ad approvvigionarsi secondo i vecchi sistemi senza i vantaggi degli accordi che la Consip ha stipulato con migliaia di fornitori. Insomma, lo spreco di denaro pubblico prosegue. È l’atto di accusa di Carlo Cottarelli, che quand’era commissario alla spending review, nell’ormai lontano 2014, propose e ottenne di portare da 35mila a 35 le stazioni appaltanti compresa la Consip. Una per regione, più alcune per aree metropolitane e associazioni di Comuni. «Fu la principale riforma strutturale che riuscimmo a varare, il decreto 66 del 2014 convertito nella legge 89 del giugno di quell’anno», racconta Cottarelli.
Una vittoria che oggi è stata disattesa perché l’elenco dei beni per cui c’è l’obbligo di acquisto tramite le stazioni centralizzate resta limitato, anche per le forti opposizioni degli enti territoriali. I decreti d’attuazione sono stati varati ma spesso sono disattesi e si è creato, a quattro anni di distanza dalla riforma, un vuoto regolamentare.
Cottarelli, che oggi dirige l’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, ha predisposto un rapporto che lancia l’allarme. Il report considera le cifre di fine 2016 perché, spiega lo stesso ex commissario, «sono le più recenti controllabili e verificabili con esattezza». La spesa pubblica per acquisti di beni e servizi (esclusa cioè quella molto ampia per investimenti) è pari a 90,7 miliardi. Poco meno della metà (42,4 miliardi) non è ancora considerata ai fini della revisione perché costituita da spese militari e altre voci difficilmente gestibili. Per ora (ma potrebbero aumentare in futuro) 48,3 miliardi sono “presidiati” dalla Consip. Sono stati cioè conclusi contratti e convenzioni con tutti i produttori disponibili per questi beni, una vasta gamma di tipologie, dalle auto alla apparecchiature sanitarie, dai mobili per ufficio al verde pubblico. «Sarebbe auspicabile - spiega Cottarelli - che qualsiasi amministrazione locale o centrale che volesse fare acquisti nell’area presidiata lo facesse attraverso gli strumenti di acquisto accentrato offerti da Consip e dalle altre stazioni appaltanti centralizzate, almeno sopra una certa soglia dimensionale».
In realtà ciò accade solo in minima parte per gli spaventosi vuoti lasciati aperti: solo 8,2 miliardi sul totale della spesa pubblica (90,7) sono effettivamente intermediati da Consip, non più del 9%. Considerando che la sola spesa presidiata, quindi teoricamente controllabile, è di 48 miliardi, 40 miliardi secchi viaggiano in una specie di terra di nessuno e sono ogni anno lasciati all’arbitrio di acquisti non controllati da parte di enti pubblici centrali e locali, esattamente come avveniva prima della riforma. L’unica speranza è nelle verifiche della Corte dei Conti. Agli 8,2 miliardi sarebbero in teoria da aggiungere gli acquisti che passano attraverso le altre stazioni appaltanti: il rapporto rivela che i dati di quanto passa attraverso queste stazioni centralizzate, a parte Consip, non vengono neppure raccolti, “cosa di per sé piuttosto strana”. Si tratta probabilmente di cifre basse e trascurabili se non altro perché diverse di queste stazioni non sono state costituite o non si è riusciti ad attuarle per motivi organizzativi. “Il Mef, da noi contattato - scrive il report - ha confermato che al momento non esistono statistiche sugli acquisti intermediati o presidiati dalle stazioni appaltanti decentrate”.
Mancano i dati: «Ho chiamato io personalmente - racconta Cottarelli - l’Arca Spa, la centrale di acquisti della Regione Lombardia, che dovrebbe essere in teoria quella meglio organizzata, ma non si è fatto trovare nessuno». La stessa legge 89 del ‘14 prevedeva che ogni anno un ulteriore decreto della presidenza del Consiglio esplicitasse le categorie di beni che rientravano nel modello “accentrato”, un numero che doveva essere progressivamente sempre maggiore. In realtà da allora è stato emanato (a fine 2015) solo un decreto che impone l’obbligo di acquisti centralizzati che riguarda solo 19 merceologie, per lo più del settore sanitario. Un’inezia rispetto all’universo delle forniture pubbliche. Doveva essere solo l’inizio, invece è stata la fine. Più nulla è stato poi promulgato. Questi decreti anno dopo anno dovevano indicare i volumi d’acquisto sopra i quali non era possibile comprare una serie crescente di articoli, soglia che non è stata mai fissata per la maggior parte dei beni e servizi. Ulteriori anomalie Il rapporto riferisce poi di un ulteriore dato anomalo: “Le 19 merceologie coperte da quel Dpcm corrispondevano a una spesa di 15,8 miliardi, una cifra ben più alta di quella intermediata da Consip. Ciò vuol dire che nonostante l’obbligo, solo una parte di quanto speso dalla PA anche per queste merceologie è stato effettivamente intermediato da Consip”. Riflette Cottarelli: «In questi anni c’è stato sì un aumento degli acquisti centralizzati ma i progressi sono ancora limitati in termini di volumi, forse per la persistente opposizione da parte di regioni e comuni a un’estensione degli acquisti centralizzati ». Eppure accentrare fa risparmiare: i dati del Mef citati dall’Osservatorio dicono che gli acquisti tramite Consip costano in media il 15% meno di quelli “spontanei”. Inoltre, scrive il Cpi, “restano aspetti di criticità in termini di trasparenza e pubblicità dei prezzi effettivamente pagati dai rispettivi rami della pubblica amministrazione”.
La riforma doveva comportare la pubblicazione degli effettivi prezzi di acquisto da parte della PA: in pratica questo avviene solo per un campione ridicolo di beni: al di fuori del settore sanitario (i cui dati peraltro si fermano al 2013) solo per le risme di carta.
Il modello Consip in realtà è costituito da quattro strumenti di acquisto. Il primo e prioritario è quello delle citate convenzioni: contratti stipulati da Consip coi quali i fornitori aggiudicatari della gara si impegnano a fornire beni e servizi alle pubbliche amministrazioni a condizioni e prezzi prestabiliti, realisticamente convenienti perché di solito si tratta di forniture di un certo quantitativo e anche per la solidità degli acquirenti. Ma poi ci sono anche gli “accordi quadro” che offrono più flessibilità in termini di prezzo, quantità e tempistiche, e poi il mercato elettronico (chiamato anche l’e-Bay della PA) e infine il “sistema dinamico di acquisizione”, un’altra varietà di asta elettronica in cui l’ente ricerca un bene o un servizio e invita le aziende ammesse al sistema a fornire un’offerta. «Evidentemente il sistema da preferire è quello delle convenzioni che garantisce migliori economicità - spiega Cottarelli - anche se per alcune categorie e volumi d’acquisto può avere un senso ricorrere all’”e-Bay” della PA». Sta di fatto che le cifre di quanto effettivamente transato tramite le convenzioni scendono ancora: nel 2016 le convenzioni hanno riguardato non più di 3,8 miliardi, e quelle del mercato elettronico 2,4 miliardi.
In questa fumosità di decreti non emessi e di rendiconti non prodotti, è impossibile dire quanto si è risparmiato, per poco che sia. Il Mef stima che se venissero usate le convenzioni Consip per tutte le merceologie presidiate si potrebbero risparmiare 3,6 miliardi. “Visto però che quanto intermediato è contenuto, i risparmi sono molto più limitati”, scrive il rapporto. Uno studio commissionato dal Mef e dalla Consip indica che ulteriori risparmi di 2,9 miliardi possono conseguire da attività legate all’innovazione come la dematerializzazione di gare e fatture, ma è un risparmio teorico e comunque la metodologia seguita per stimarlo non è disponibile pubblicamente”. E sulla vexata quaestio dei ricorsi (651 pendenti) il rapporto dell’Osservatorio invita a rivedere la normativa che rende così facile un ricorso “per impedire un uso strumentale della giustizia”.
Non progredi est regredi