Messaggioda arnaldo » 29 gen 2015 10:07
Post rilevante e non fate caso al titolo tipo Novella 2000, ve lo dico in anticipo. Attingo a piene mani da un editoriale di vari mesi fa intitolato “Our idea of terroir” e firmato da Michel Bettane (The World of Fine Wine 44 – 3/2014). Quali le idee cardine? Queste, in sintesi non estrema sennò ci perdiamo.
Bettane scrive, io taglio, copio, traduco, incollo, semplifico e giro la frittata sempre usando la prima persona.
- Da oltre trenta anni esploro la connessione tra gusto e luoghi. Mi hanno insegnato che un grande vino ha la faccia del suo luogo di nascita e il coraggio dell’uomo che l’ha fatto. Quello che non avevano previsto, invece, era che il terroir diventasse una religione, coi suoi eroi e le sue divinità.
- Non farò nomi ma uno di questi idoli è il nuovo guru della Borgogna (Monsieur Bettane sta parlando di Henri Jayer ma non lo menzionerà mai, nell’articolo). Specialmente ora che è morto, ogni sua parola è presa come Vangelo. Uno che fino ai primi ’90 ha fatto affidamento sui prodotti chimici, ha vendemmiato in anticipo e aggiunto zucchero: i suoi 1978 sono stati zuccherati fino a contenere 2 extra-gradi di alcol. Il prezzo delle bottiglie raggiunge ormai anche i 10.000 euro e dalla morte in poi ha accumulato più soldi di qualsiasi altro uomo sia seppellito nello stesso cimitero.
- Il nipote – di Jayer, cioè Emmanuel Rouget, non menzionato nemmeno lui – ora produce vini considerevolmente più raffinati del suo predecessore (molti non sono d’accordo ma non so che dire al riguardo). Detto questo, il “nostro uomo” ha prodotto alcune annate davvero magnifiche e si può intuire perché il suo nome sia diventato leggendario.
- Ma è una forzatura dire – come fanno i suoi seguaci (followers) – che ogni cru di Borgogna dimostri sempre il timbro caratteristico del luogo dove è stato prodotto (But it’s quite a stretch to claim, as his followers do, that every Burgundian cru always demonstrates the signature characteristics of the place where it’s produced).
Piccolo inciso. Una frase ricorrente, tanto perentoria quanto discutibile, suona più o meno così: “La Borgogna fatta bene è davvero eccelsa, oltre che incredibilmente riconoscibile, per comune e per annata.”
All’affermazione di Bettane segue una sorta di “esperimento” che ha poi fatto con un suo amico greco, enologo e consulente in Borgogna di prestigiose cantine: 40 vini alla cieca e senza un ordine particolare, mescolati per comune in occasione della manifestazione Terre de Vins Grand Tastings of the Cote de Nuits Premier Crus 2001. L’obiettivo non era identificare il cru ma almeno il villaggio di origine.
- Risultato: 40 campioni dopo, 4 individuati correttamente per villaggio, più per fortuna che per bravura. Ad emergere è stata la tipicità della Cote de Nuits nella sua interezza, non lo specifico comune o il cru particolare. Bettane ammette di aver confuso il Gevrey Chambertin Clos St-Jacques di Bruno Clair per un vino di Chambolle (finezza e bilanciamento eccezionali), così come i Beaumonts di Jadot e Dominique Laurent, alla cieca troppo splendidamente robusti per ricordare Vosne-Romanée.
Conclusione.
Il terroir non esiste? Nemmeno per sogno, ovviamente. Esiste eccome. Il terroir inteso come struttura del suolo e clima gioca un ruolo rilevantissimo nella formazione del gusto. Ma i confini fisici tracciati dall’uomo non hanno nulla a che vedere col terroir. Ugualmente se non più importante è il modo in cui gli uomini interpretano e lavorano la terra dove sono piantate le vigne. I cloni selezionati, l’età delle vigne, il processo di maturazione: questi sono i fattori che determinano se un vino è eccezionale o solo ordinario.
Noi possiamo con tutti i mezzi sproloquiare – prosegue Bettane – bicchiere in mano, sulla nostra idea di “Pauillac” (o “Barolo” o “Brunello”). A patto di tenere bene a mente che è solo la nostra idea.
Adesso scendiamo sulla terra e torniamo a noi, riepilogando.
Occhio a non ideologizzare Jayer come avesse inventato l’acqua calda.
Occhio a non ideologizzare l’idea di terroir. Il terroir non segue i confini “politici” tracciati dall’uomo. Parlare di Borgogna e terroir conduce facilmente a parlare di Langhe, Barolo e Barbaresco. Per la mia esperienza, in linea generale, la suddivisione dei Barolo per comune è “utilissima per gli assaggi, fuorviante per trarre conclusioni. Dire “i vini di Castiglione Falletto” o “i vini di Barolo” ha poco senso perché i vari comuni, specie i più grandi come La Morra e Monforte d’Alba, hanno al proprio interno una quantità molto vasta di caratteri pedoclimatici differenti, microclimi ed esposizioni non riducibili all’unitarietà. Nella maggior parte dei casi anche una stessa Menzione Geografica Aggiuntiva viene intesa e proposta dai produttori con caratteristiche diverse tra loro. Basti per tutti l’esempio Villero a Castiglione: per Mauro ed Elena Mascarello (Mascarello Giuseppe) è il Barolo più femminile della casa, per Claudio Fenocchio (Giacomo Fenocchio) è il Barolo più polposo e ricco, per Brovia è una via di mezzo tra i cru aziendali. Quella del comune è solo una delle variabili e nemmeno la più importante per un’analisi approfondita.”
Conclusione? Il terroir (non) è morto, w il terroir. Però non esageriamo.