Diario economico

Dove discutere, confrontarsi o scherzare sempre in modo civile su argomenti attinenti al mondo del food&wine e non solo.

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Tex Willer
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Re: Diario economico

Messaggioda Tex Willer » 04 ago 2020 13:11

maxer ha scritto:
Tex Willer ha scritto:
zampaflex ha scritto:E dopo i lavoratori disonesti, ecco gli imprenditori disonesti.

https://www.huffingtonpost.it/entry/le-aziende-furbette-della-cassa-integrazione-234mila-hanno-fatto-profitti-ai-danni-dello-stato_it_5f2060cac5b638cfec4adcdb?al&utm_hp_ref=it-homepage

... Basta con il qualunquismo per favore ...


..... ma quale qualunquismo ? :shock:

sono 234 mila aziende !
( duecentotrentaquattromila )

Ma quanti milioni di euro hanno RUBATO (anche ai colleghi, facendogli pure concorrenza sleale) ? .....



Non ho idea di quanti imprenditori scorretti ci siano nel numero da te citato, ma eviterei di concentrarmi sui titoli senza approfondire: si rischia di finire ,appunto,a fare del qualunquismo :wink:
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Re: Diario economico

Messaggioda Tex Willer » 04 ago 2020 13:28

tenente Drogo ha scritto:la questione delle aziende che hanno percepito i fondi per la cassa integrazione ma non hanno subito calo di fatturato è un po' più complessa

come al solito sono garantista: non possiamo dare per scontato che siano tutti imbroglioni

come scrive Massimo Famularo:

"Il fatturato non è collegato in tempo reale con il numero delle ore lavorate.

In un periodo di pochi mesi è assolutamente possibile che il fatturato rimanga invariato anche se il numero di ore lavorate cala drasticamente, perché ad esempio si vendono prodotti realizzati nei mesi precedenti: guardare al fatturato di uno o due mesi non è significativo per formulare congetture sull'andamento dell’attività di una impresa."

più dettagli qui:
https://ko-fi.com/Blog/Post/E-vero-che- ... fcP5eFdmKc

Sostanzialmente corretto
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Re: Diario economico

Messaggioda zampaflex » 04 ago 2020 14:55

Tex Willer ha scritto:
tenente Drogo ha scritto:la questione delle aziende che hanno percepito i fondi per la cassa integrazione ma non hanno subito calo di fatturato è un po' più complessa

come al solito sono garantista: non possiamo dare per scontato che siano tutti imbroglioni

come scrive Massimo Famularo:

"Il fatturato non è collegato in tempo reale con il numero delle ore lavorate.

In un periodo di pochi mesi è assolutamente possibile che il fatturato rimanga invariato anche se il numero di ore lavorate cala drasticamente, perché ad esempio si vendono prodotti realizzati nei mesi precedenti: guardare al fatturato di uno o due mesi non è significativo per formulare congetture sull'andamento dell’attività di una impresa."

più dettagli qui:
https://ko-fi.com/Blog/Post/E-vero-che- ... fcP5eFdmKc

Sostanzialmente corretto


Ma anche no, suvvia, il fatturato è DIRETTAMENTE riconducibile all'attività tranne per chi fa grandi lavori (e comunque questi emettono fatture di acconto per percepire i cosiddetti SAL).
E poi il legame non è "lavoro attuale-> fatturato", bensì più semplicemente "fatturato giù? Chiedi cassa". La cassa integrazione per il COVID ha queste regole. Se la percepisci in assenza del calo, violi le regole.
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Re: Diario economico

Messaggioda tenente Drogo » 04 ago 2020 15:15

zampaflex ha scritto:
Tex Willer ha scritto:
tenente Drogo ha scritto:la questione delle aziende che hanno percepito i fondi per la cassa integrazione ma non hanno subito calo di fatturato è un po' più complessa

come al solito sono garantista: non possiamo dare per scontato che siano tutti imbroglioni

come scrive Massimo Famularo:

"Il fatturato non è collegato in tempo reale con il numero delle ore lavorate.

In un periodo di pochi mesi è assolutamente possibile che il fatturato rimanga invariato anche se il numero di ore lavorate cala drasticamente, perché ad esempio si vendono prodotti realizzati nei mesi precedenti: guardare al fatturato di uno o due mesi non è significativo per formulare congetture sull'andamento dell’attività di una impresa."

più dettagli qui:
https://ko-fi.com/Blog/Post/E-vero-che- ... fcP5eFdmKc

Sostanzialmente corretto


Ma anche no, suvvia, il fatturato è DIRETTAMENTE riconducibile all'attività tranne per chi fa grandi lavori (e comunque questi emettono fatture di acconto per percepire i cosiddetti SAL).
E poi il legame non è "lavoro attuale-> fatturato", bensì più semplicemente "fatturato giù? Chiedi cassa". La cassa integrazione per il COVID ha queste regole. Se la percepisci in assenza del calo, violi le regole.


sei sicuro?
I comunisti mi trattavano da fascista, i fascisti da comunista.
Tutto questo ha aiutato il film.
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Re: Diario economico

Messaggioda Tex Willer » 04 ago 2020 15:19

zampaflex ha scritto:
Tex Willer ha scritto:
tenente Drogo ha scritto:la questione delle aziende che hanno percepito i fondi per la cassa integrazione ma non hanno subito calo di fatturato è un po' più complessa

come al solito sono garantista: non possiamo dare per scontato che siano tutti imbroglioni

come scrive Massimo Famularo:

"Il fatturato non è collegato in tempo reale con il numero delle ore lavorate.

In un periodo di pochi mesi è assolutamente possibile che il fatturato rimanga invariato anche se il numero di ore lavorate cala drasticamente, perché ad esempio si vendono prodotti realizzati nei mesi precedenti: guardare al fatturato di uno o due mesi non è significativo per formulare congetture sull'andamento dell’attività di una impresa."

più dettagli qui:
https://ko-fi.com/Blog/Post/E-vero-che- ... fcP5eFdmKc

Sostanzialmente corretto


Ma anche no, suvvia, il fatturato è DIRETTAMENTE riconducibile all'attività tranne per chi fa grandi lavori (e comunque questi emettono fatture di acconto per percepire i cosiddetti SAL).
E poi il legame non è "lavoro attuale-> fatturato", bensì più semplicemente "fatturato giù? Chiedi cassa". La cassa integrazione per il COVID ha queste regole. Se la percepisci in assenza del calo, violi le regole.

Chi aveva giacenze di magazzino ed ordini da evadere si ritrova a mantenere lo stesso fatturato in quel periodo , durante il quale non ha prodotto. In pratica i problemi li avra'piu avanti
Diverso il caso di chi utilizzava un lavoratore in smart working , risparmiando lo stipendio: quella e'una truffa ma non credo assolutamente siano gli oltre 234.000 truffatori. Sarebbe ora di finirla con i titoli da scatola e concentrarsi su come far ripartire tutto prima possibile
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Re: Diario economico

Messaggioda maxer » 04 ago 2020 21:20

Tex Willer ha scritto:
maxer ha scritto:
Tex Willer ha scritto:
zampaflex ha scritto:E dopo i lavoratori disonesti, ecco gli imprenditori disonesti.

https://www.huffingtonpost.it/entry/le-aziende-furbette-della-cassa-integrazione-234mila-hanno-fatto-profitti-ai-danni-dello-stato_it_5f2060cac5b638cfec4adcdb?al&utm_hp_ref=it-homepage

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..... ma quale qualunquismo ? :shock:

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Ma quanti milioni di euro hanno RUBATO (anche ai colleghi, facendogli pure concorrenza sleale) ? .....



Non ho idea di quanti imprenditori scorretti ci siano nel numero da te citato, ma eviterei di concentrarmi sui titoli senza approfondire: si rischia di finire ,appunto,a fare del qualunquismo :wink:

..... se non hai idea, come sembra, non concentrarti solo sui titoli ma leggi, leggi tutto l' articolo dell' Huffington Post (con i numeri, fonte Inps / Agenzia delle Entrate, rivelati in un' audizione dal presidente Pisauro dell' Ufficio Parlamentare di Bilancio, dati che pochissimi altri media hanno riportato, guarda caso ...)

È facile :
devi solo cliccare su : " CONTINUA A LEGGERE "

E così potrai approfondire anche tu .....
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Re: Diario economico

Messaggioda tenente Drogo » 05 ago 2020 13:40

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Re: Diario economico

Messaggioda zampaflex » 05 ago 2020 16:58

tenente Drogo ha scritto:lo stato gelataio

https://www.ilsole24ore.com/art/cdp-inv ... al-AD1F6uh


Sei abbastanza vetusto da ricordarti quando lo era in passato, durante l'IRI e carrozzoni simili.
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Re: Diario economico

Messaggioda Tex Willer » 05 ago 2020 18:26

tenente Drogo ha scritto:lo stato gelataio

https://www.ilsole24ore.com/art/cdp-inv ... al-AD1F6uh

Dopo Alitalia e Autostrade i gelati... un bel cambio di passo
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Re: Diario economico

Messaggioda tenente Drogo » 05 ago 2020 19:20

zampaflex ha scritto:
tenente Drogo ha scritto:lo stato gelataio

https://www.ilsole24ore.com/art/cdp-inv ... al-AD1F6uh


Sei abbastanza vetusto da ricordarti quando lo era in passato, durante l'IRI e carrozzoni simili.



ué supergiovane, non faccia tanto lo spiritoso :)

comunque sì, ricordo abbastanza bene, anche se a quei tempi non pensavo tanto all'IRI
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Re: Diario economico

Messaggioda zampaflex » 07 ago 2020 11:33

Lombardia presa d'assalto dai precari di tutta Italia per i concorsi a cattedra ordinari. Il ministero dell'Istruzione ha pubblicato i numeri delle richieste di partecipazione in tutta la Penisola per le selezioni relative alla scuola primaria, dell'infanzia e per la scuola secondaria. La Lombardia è la regione più gettonata, con quasi 75 mila domande. Ma soltanto una parte dei pretendenti al posto fisso (41 mila) risiede in regione. Gli altri, oltre 33 mila concorrenti pari al 45 per cento del totale, proviene soprattutto dal Sud, dove i ruoli a disposizione si contano col contagocce. Ad esempio a fronte dei 4 posti complessivi disponibili in Campania e dei 292 della Sicilia per la selezione della scuola primaria e dell'infanzia, in Lombardia lo stesso concorso mette a disposizione oltre 4 mila cattedre, 2.300 delle quali per il sostegno. Mentre per medie e superiori le cattedre da coprire sono addirittura 7.247. A conti fatti, si tratta di 11.300 posti, pari a quasi un quarto di tutti quelli messi a concorso a livello nazionale.

Le due selezioni, per l'abbondanza di partecipanti, si apriranno certamente col quizzone preselettivo computer- based. E passerà agli scritti un numero di concorrenti pari a tre volte il numero dei posti messi a concorso. Chi vuole intraprendere la carriera da docente sa perfettamente che per accorciare i tempi deve iniziare dalla Lombardia. O dal nord. Ma c'è chi storce il muso. "La Lombardia — spiega Massimo Spinelli, a capo dell'Associazione nazionale presidi per la Lombardia — è un vaso che si riempie e si svuota con la stessa facilità. Serve per ottenere una cattedra, ma appena è possibile la si lascia. Quest'anno i vuoti sono talmente tanti che l'assalto non sarà sufficiente. Credo che i dirigenti scolastici faranno fatica a coprire tutti i posti in organico, al punto che il ministero ha ipotizzato di ricorrere ai laureandi. In queste condizioni è difficile parlare di continuità didattica, di qualità, di progettualità". "Che ben vengano — rincara Massimiliano Sambruna, a capo della Cisl lombarda — l'importante è che rimangano. Capita spesso che una volta assunti parecchi poi se ne tornino a casa".
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Re: Diario economico

Messaggioda harmattan » 07 ago 2020 12:24

Perchè la BCE fa grandi acquisti obbligazionari di società extraUE? Cosa lega la Novartis, la British American Tobacco e la CK Hutchison Group (registrata alle Cayman e con sede a HK) con la Banca denoantri?

https://wolfstreet.com/2020/08/04/whys-the-ecb-buying-the-debt-of-so-many-non-eu-companies/

Non era meglio fare una donazione all'Antico caffè Greco di via Condotti??
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Re: Diario economico

Messaggioda zampaflex » 07 ago 2020 14:22

Bella analisi, e da McKinsey non ci si può aspettare di meno, sui trends in atto tra i consumatori americani che in minor parte vedremo anche qui.

https://www.mckinsey.com/business-functions/marketing-and-sales/our-insights/the-great-consumer-shift-ten-charts-that-show-how-us-shopping-behavior-is-changing?cid=soc-app
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Re: Diario economico

Messaggioda tenente Drogo » 12 ago 2020 14:26

Contro l'Italia degli zombie

di Carlo Stagnaro

Anche nella crisi post Covid le scelte di politica economica sono votate alla conservazione
L’economia di un paese non è una foresta di pietra da tramandare ai posteri, è un ecosistema da coltivare. Le principali scelte di politica economica del governo sono invece votate alla conservazione: cassa integrazione, divieto di licenziamento e ingresso dello stato nel capitale delle imprese sono i pilastri di una strategia di resistenza al cambiamento. Il problema è che esse sono il frutto di una convinzione che, seppure nelle ultime settimane ha iniziato a incrinarsi, rimane dominante. All'inizio della crisi, il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, aveva proclamato: "Nessuno dovrà perdere il posto di lavoro per il coronavirus".

Probabilmente, oggi non si riconosce più in un impegno tanto netto, ma l'esecutivo fatica a emanciparsene. Anche perché termini pressoché identici sono stati utilizzati dal premier Giuseppe Conte, dal ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, dalla ministra del Lavoro Nunzia Catalfo. Quest'ultima aveva addirittura garantito che il decreto Agosto conterrà "la prosecuzione del blocco dei licenziamenti, con alcune eccezioni come la cessazione di attività" (tanta grazia). In realtà il compromesso trovato in Consiglio dei ministri è solo formalmente più moderato: legando il divieto di licenziamento alla cassa integrazione (anche per le imprese che non la usano), nella sostanza rimane in vigore un vincolo che, in questi termini, esiste solo in Cina, Turchia ed Etiopia. In Europa, solo la Slovacchia ha adottato un provvedimento simile per breve tempo, mentre la Corea del Nord, che ce l'aveva, ci ha superato in riformismo, avendolo cancellato nel 2014.

È alla luce di questi orientamenti politici che si dovrebbero leggere gli ultimi, preoccupanti dati economici. Il tasso di disoccupazione, nel mese di giugno 2020, era dell'8,8 per cento, un poco più alto della media Ue (7,8 per cento). Il numero di ore lavorate, nei primi tre mesi della crisi, era crollato del 28 per cento, la contrazione più importante tra tutti i paesi industrializzati, circa il doppio degli Stati Uniti e quasi il triplo della Svezia. Il tasso di occupazione, a giugno, era del 57,5 per cento, mentre gli inattivi superavano un terzo della popolazione in età lavorativa (36,8 per cento). A dispetto delle promesse dei ministri, tra febbraio e giugno si sono persi circa mezzo milioni di occupati. Col risultato che l'impatto della crisi ha riguardato soprattutto i lavoratori più deboli: lavoratori a basso reddito, contratti a termine, donne e giovani.

Come spesso accade, quella che a prima vista sembra la soluzione, a lungo andare diventa il problema. L'economia di un paese è qualcosa di simile a un bosco: prospera quando può evolvere e cambiare, lasciando che fratello sole, sorella luna e zio Darwin facciano il loro mestiere. Invece, la nostra politica non solo ostacola i cambiamenti nel nome di un malinteso senso di solidarietà verso coloro che ne sarebbero le vittime, ma addirittura non li ritiene desiderabili né possibili. Sembra dare per scontato che quella che stiamo attraversando non sia una fase di trasformazione profonda del tessuto produttivo e sociale, ma una sorta di lungo giorno della marmotta, trascorso il quale ci troveremo esattamente dove eravamo il 31 dicembre 2019.

Le immense risorse impegnate nella cassa integrazione, assieme alle altre misure messe in campo (come il reddito di emergenza), hanno finora consentito di attutire l'impatto immediato della crisi, nonostante il pil nella prima metà dell'anno abbia già perso il 14,3 per cento. Il fabbisogno per mitigare gli effetti sociali della recessione potrebbe collocarsi tra 6,5 e 16,4 miliardi di euro per la sola cassa integrazione, mentre l'Inps prevede un disavanzo di 35,7 miliardi. Nell'ipotesi di un incremento del debito pubblico attorno al 160 per cento, si tratta di soldi presi in prestito dalle generazioni future, che dovranno restituirli sotto forma di maggiori tasse.

Di per sé, la cosa potrebbe destare solo una moderata preoccupazione, se fossimo convinti che, una volta usciti dal tunnel, l'Italia riprenderà a crescere e, con la ricchezza creata, potrà ripagare i debiti contratti. Spoiler: sono vent'anni che aspettiamo la svolta, ma non succede mai. Purtroppo, la ragione di ciò non è stata finora compresa dalla classe politica. Anzi: molte delle misure adottate in questi mesi tra cui il blocco dei licenziamenti e il ricorso estensivo alla cassa integrazione, ma anche l'ingresso dello stato nel capitale delle imprese in difficoltà agiscono sui sintomi della crisi pandemica, ma lo fanno in modo tale da esacerbare le cause della nostra progressiva perdita di competitività.

Cattiva allocazione del capitale e Covid
Da cosa dipende la stagnazione italiana? Le cause sono molte e complesse, ma tutte – attraverso svariati canali di trasmissione – portano alla mancata crescita della produttività. La produttività esprime la capacità del sistema economico di generare output (cioè prodotti per i quali vi sia una domanda) attraverso una certa quantità di input (capitale, lavoro e materie prime). In questo processo, sono fondamentali la tecnologia, l'organizzazione e l'esistenza di infrastrutture materiali (strade, ferrovie, reti energetiche e di telecomunicazioni...) e immateriali (l'efficacia del sistema giudiziario, il capitale umano e sociale, la qualità delle istituzioni...). Esse contribuiscono a migliorare l'utilizzo dei fattori della produzione e a orientare le attività economiche verso quei beni o servizi che sono richiesti dai consumatori.

Quindi, un paese si sviluppa nella misura in cui è in grado di fare un utilizzo efficiente dei fattori della produzione. Solo che la frontiera dell'efficienza cambia continuamente: nuovi processi e prodotti si affacciano sul mercato, i consumatori mutano le loro preferenze, degli shock esterni possono improvvisamente rimescolare le carte in tavola. Un sistema economico, dunque, è tanto più solido quanto più è capace di adattarsi a queste grandi e piccole trasformazioni. Anzi: riallocare continuamente i fattori della produzione, favorendone l'utilizzo migliore, è proprio la principale funzione dell'economia di mercato. È precisamente il motivo per cui i mercati aperti e competitivi battono i piani quinquennali. Al contrario, una produttività bassa e declinante (o comunque incapace di crescere) denuncia un cattivo utilizzo degli input produttivi: i lavoratori svolgono mansioni obsolete, l'organizzazione del lavoro in azienda non risponde ai criteri migliori, le tecnologie sono superate, ecc.

Quali possono esserne le ragioni? A volte dipende da un problema di specializzazione produttiva: le imprese continuano a produrre beni per i quali non vi è più domanda, oppure non sono in grado di produrli a costi inferiori ai prezzi che i consumatori sono disposti a pagare. In queste circostanze, in un contesto ben oliato le imprese inefficienti o sorpassate finiscono fuori dal mercato, o attraverso il fallimento (che letteralmente "libera" capitale e lavoro), oppure attraverso l'acquisizione e la ristrutturazione da parte di altre più grandi. Quando, però, tale processo di aggiustamento viene impedito, il risultato è che capitale e lavoro rimangono "intrappolati" in attività a basso valore aggiunto; se è la società a farsene carico (per esempio attraverso trasferimenti fiscali diretti o indiretti, come la cassa integrazione, o norme anticoncorrenziali che proteggono le rendite) allora è come se l'impresa inefficiente imponesse una tassa all'intera comunità.

La tassa ha due volti: redistributivo (il denaro trasferito dalle aziende sane a quelle decotte) e allocativo (la perdita di efficienza dovuta al fatto che capitale e lavoro potrebbero essere impiegati per scopi relativamente più produttivi). I precedenti abbondano: dai periodici salvataggi di Alitalia alle vicende tanto singolari quanto mediatiche come quella dell'ex Embraco di Riva di Chieri. Tale stabilimento, parte del gruppo Whirlpool, realizzava motori per lavatrici: una produzione a basso valore aggiunto sulla quale incide pesantemente il costo del lavoro, e che per questo è progressivamente migrata (assieme all'intera industria del bianco) verso l'Europa dell'Est. Dal 2017, tre governi di colori diversi hanno tentato in ogni modo di salvare l'impianto, con una girandola di tentativi disordinati di cambiarne la mission (dalle bici elettriche ai robot per pulire i pannelli solari fino alle batterie). Ma, alla fine, si è arrivati all'unica conclusione possibile, prevedibile e inevitabile: il fallimento (Luciano Capone, il Foglio, 25 luglio). Si sono persi oltre due anni, durante i quali risorse pubbliche sono state sprecate e ai lavoratori è stata negata l'opportunità di una riqualificazione professionale che li aiutasse a cercare un'alternativa. Ed essi si trovano in mezzo alla strada proprio nel momento peggiore, perché nell'anno del Covid è improbabile che il sistema economico riesca a riassorbirli rapidamente.

Quando il numero di imprese inefficienti di cui il sistema economico deve farsi carico diventa eccessivo, è l'intero paese a pagarne il fio. Uno studio del 2016 condotto da Sara Calligaris e altri per conto della Commissione europea ha indagato "l'enigma della produttività italiana", con un risultato per certi versi sorprendente: in gran parte, la nostra bassa produttività non dipende dalla specializzazione produttiva. Anzi, all'interno di tutti i settori, imprese assai produttive convivono con altre che all'apparenza non hanno speranza di sopravvivere. L'indagine rivela un aspetto ancora più preoccupante: "Il fenomeno della crescente cattiva allocazione ha colpito categorie che tradizionalmente erano la punta dell'economia italiana, per esempio nel Nordovest o tra le grandi imprese".

Questo problema si intreccia a un altro, quello dell'eccessiva frammentazione industriale: imprese troppo piccole non hanno le risorse per investire (per esempio nella digitalizzazione o in ricerca e sviluppo), e si trovano sistematicamente spiazzate dai cicli di innovazione. Intendiamoci: non è "colpa" degli imprenditori (o, almeno, non solo), ma anche e soprattutto di un sistema zeppo di ostacoli alla crescita dimensionale. Uno dei più importanti era il famigerato articolo 18: non a caso, come hanno mostrato Tito Boeri e Pietro Garibaldi in uno studio Inps del 2018, dopo il Jobs Act la mobilità intorno alla soglia dei 15 addetti è aumentata sensibilmente. Adesso, tra cassa integrazione e divieto di licenziamento, ci troviamo in una situazione persino peggiore di quella di partenza: chi mai assumerà un dipendente con un contratto a tempo indeterminato, sapendo che poi, se le cose andranno male e i fatturati non reggeranno, non ci sarà modo di terminare il rapporto? Vale a poco sottolineare che il divieto è temporaneo: dopo tre proroghe in un solo anno, nessuno si fiderà della sua integrale rimozione se non dopo che questa sarà effettivamente avvenuta.

La zavorra rappresentata dalle imprese inefficienti per l'economia italiana è una delle spiegazioni più evidenti (nei risultati) e complicate (nei rimedi) della nostra scarsa performance economica. Nel 2013, l'Italia (dopo la Grecia) era il paese industrializzato con la più alta quota di capitale "incagliato" in imprese zombie: quasi il 20 per cento del totale, secondo le stime dell'Ocse. E' probabile che il problema si sia ridimensionato per effetto della crisi degli scorsi anni, che ha determinato il fallimento di molte di queste realtà. Adesso rischiamo di tornare daccapo. Buona parte della colpa è del Covid: per il resto, chiedete a Palazzo Chigi.

Marco Pagano, economista dell'Università Federico II, ha condotto assieme ai suoi coautori due studi che ci forniscono indicazioni importanti (il Foglio, 3 luglio 2020). In primo luogo, ha dimostrato che, a livello globale, la pandemia ha innescato una profonda riallocazione dei fattori della produzione, con effetti pesantemente asimmetrici tra settori e aziende: i cambiamenti nelle scelte di consumo delle persone osservate durante il lockdown sono destinati, almeno in parte, a rimanere; il sistema produttivo dovrà fatalmente adeguarsi.

Ma c'è un aspetto ancora più importante: le imprese che hanno mostrato maggiore capacità di resistere sono le stesse che, nei sei anni precedenti, avevano avuto performance migliori. Questo suggerisce che il Covid ha accelerato le trasformazioni strutturali già in atto a causa del cambio tecnologico e della globalizzazione. Lo conferma l'altro paper, relativo proprio all'Italia: sulla base di un campione di quasi 81 mila imprese, gli autori hanno stimato che nonostante le varie forme di aiuto ricevute, inclusa la Cig circa il 17 per cento saranno insolventi a fine anno. La percentuale potrebbe essere ancora maggiore se la crisi fosse più persistente e la ripresa più lenta: per ora sappiamo dall'Ufficio parlamentare di bilancio che circa un terzo della Cig è andato a imprese che avevano subito una contrazione del fatturato superiore al 40 per cento. In tal caso, il mix tra cassa integrazione e divieto di licenziamenti (per non dire delle nazionalizzazioni) non sarebbe una forma di sostegno necessaria a superare una fase di temporanea difficoltà, ma una sorta di accanimento terapeutico: un inutile e dannoso ingessamento dell'economia proprio quando essa ha il massimo bisogno di trasformarsi rapidamente.

Peggio ancora è il ricorso sempre più diffuso a forme, striscianti o esplicite, di nazionalizzazione: lo stato è entrato o sta entrando nell'equity di una pluralità di imprese, con motivazioni spesso scorrelate dal Covid. Se in alcuni casi (l'ex Ilva) ciò rappresenta l'inevitabile esito di una incredibile sequela di abbagli, in altri (Alitalia, Autostrade, Tim) è frutto dei pregiudizi ideologici sul potere taumaturgico dello stato e in altri ancora (Corneliani) rivela non solo l'incomprensione, ma addirittura il disinteresse per le conseguenze di lungo termine della "irizzazione" dell'economia.

La pretesa di garantire che "nessuno perderà il lavoro" attraverso la statalizzazione degli asset implica una ancora più forte ossificazione dell'economia, perché da un lato ne rende di fatto non più contendibile il controllo, e dall'altro ne politicizza le strategie industriali e le politiche occupazionali. In pratica, la strategia italiana di fronte alla crisi era forse ragionevole nell'immediato come mera risposta agli effetti economici del lockdown ma appare sempre meno sostenibile man mano che passa il tempo, e impedisce all'economia di riassestarsi.

Se c'è un momento in cui le politiche dovrebbero indirizzare risorse e riforme verso l'incremento del potenziale produttivo dell'economia, quel momento è adesso. Invece, l'aspettativa di immensi fondi europei che allenta i richiami al realismo rovescia il celebre motto di Rino Formica: il Covid ha reso i monaci poveri, ma il convento è (o si crede) ricco. E questa percezione può spingere il governo a perseverare negli errori che non solo hanno puntellato la gestione degli ultimi mesi, ma che hanno progressivamente fiaccato la nostra capacità di crescere negli ultimi trent'anni.

Le opportunità di Next Generation Eu
Il pacchetto Next Generation Eu che dovrebbe veicolare al nostro paese oltre 200 miliardi di euro tra finanziamenti a fondo perduto e prestiti, in aggiunta a tutte le risorse già stanziate rappresenta sia un rischio sia un'opportunità. In principio, i soldi europei dovrebbero servire a investire nel miglioramento del capitale pubblico e sostenere le imprese nelle trasformazioni digitale e green, oltre a creare condizioni sociali che aiutino a rendere politicamente sostenibili le riforme strutturali. Lo stesso disegno degli aiuti è pensato in modo tale da introdurre forti condizionalità, peraltro legate alle aree di debolezza degli stati membri.

È dunque essenziale interrogarsi su quali siano gli ambiti ove concentrare gli investimenti (a partire dalla ricerca, le infrastrutture e la scuola) e rimuovere gli ostacoli alla crescita economica, non con l'obiettivo di "gonfiarne" le performance nel breve, ma con quello di alzarne il potenziale di lungo termine. Una missione complessa, che richiede anche l'attitudine intellettuale a correggere le politiche man mano che se ne vedono gli effetti, i limiti e i potenziali sbagli. Per questo, con Guglielmo Barone e Marco Percoco abbiamo proposto di predisporre un programma di valutazione dell'effetto delle policy, e rilasciare sistematicamente i relativi dati in formato open allo scopo di trarre vantaggio dai lavori dei ricercatori indipendenti (il Foglio, 17 giugno 2020).

Un utilizzo improprio delle risorse Ue per esempio per aumentare la spesa corrente, fare redistribuzione o proteggere le imprese obsolete dai cambiamenti in atto finirebbe per deteriorare le condizioni del nostro paese e aggravarne lo stato di salute. Infatti, per un verso non si farebbe altro che protrarre e forse acuire i mali legati alla cattiva allocazione del capitale; dall'altro, si appesantirebbe il fardello del debito sulle nostre spalle. Ma anche facendo ipotesi eroiche sulla virtuosità della spesa e l'efficacia delle condizioni e dei controlli europei, questa somma di circostanze vincola l'Italia a mantenere, nel medio termine, una pressione fiscale elevata.

Per quanti sforzi si possano fare nella direzione di una razionalizzazione della spesa pubblica, gran parte delle uscite è vincolata dalla legacy di scelte precedenti (pensioni, servizio al debito, ecc.). Paradossalmente, quindi, la vera utilità degli stanziamenti di Next Generation Eu sta proprio nelle riforme strutturali che, seguendo le raccomandazioni della Commissione, il nostro paese dovrebbe essere tenuto a mettere in atto. E tuttavia, nel passato il vincolo esterno si è rivelato efficace solo rispetto a obiettivi puntuali (come la correzione dei conti pubblici negli anni precedenti l'adesione all'euro) o nei casi in cui la pressione verso l'integrazione dei mercati era realmente forte (come nel recepimento delle direttive sulla liberalizzazione del trasporto aereo e, in parte, delle altre industrie a rete).

L'esempio dei frugali
Come fare, allora, a garantire che le riforme siano adottate non con lo spirito dei "compiti a casa", ma con la determinazione che è necessaria a renderle veramente efficaci? Purtroppo, non ci sono scorciatoie: il vincolo esterno deve diventare vincolo interno. Nessuna riforma può veramente dare i risultati sperati se non è compresa, condivisa e metabolizzata (come conferma la parabola del Jobs Act, smontato pezzo per pezzo). Data la situazione in cui si trova, l'Italia dovrebbe guardare all'esempio proprio dei paesi con cui si è scontrata in modo più violento durante l'ultimo Consiglio europeo, cioè i cosiddetti frugali.

Tolta l'Olanda, che ha un modello parzialmente diverso, gli altri quattro (Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia) hanno molto da insegnarci. Infatti, non devono il loro successo all'utilizzo della leva tributaria per attirare le multinazionali. Al contrario: hanno elevata spesa pubblica (in media il 50,1 per cento del pil, contro il 48,7 per cento dell'Italia nel 2019), alta pressione fiscale e contributiva (51,1 per cento contro 47,1 per cento), e rigida disciplina di bilancio (surplus pari all'1 per cento del pil contro un deficit dell'1,6 per cento). Dovremmo quindi chiederci: come è possibile? Perché riescono a estrarre una quota così alta dei rispettivi redditi nazionali senza compromettere la crescita, e addirittura continuano ad attrarre imprese e produrre innovazione?

La risposta sta solo in parte nella qualità dei servizi pubblici (che pure conta, e non poco). Sta soprattutto nel modo in cui essi affiancano una forte azione redistributrice dello stato a una pronunciata libertà economica. Secondo l'Index of economic freedom della Heritage Foundation, questi paesi ottengono un punteggio medio pari a 75,5 punti su 100, l'Italia ne ha 63,8. Analogamente, arrivano ai vertici in classifiche quali Doing Business o il Global Competitiveness Report, che vedono l'Italia sempre in coda al mondo industrializzato.

Per dirlo in modo molto semplice, i "frugali" reggono uno stato pesante perché hanno la mano leggera sul fronte della regolamentazione: possono tassare senza mettere in fuga le imprese perché in cambio offrono un ambiente nel quale la libertà d'impresa è tutelata e il diritto a innovare riconosciuto. Ma ciò significa anche che accettano e promuovono i cambiamenti, sostenendo i lavoratori durante le loro transizioni professionali (anche attraverso un potente investimento nelle politiche attive del lavoro), senza però frapporre alcun ostacolo all'espulsione dal mercato delle aziende in crisi.

La condizione per creare valore è accettare che vi siano dei perdenti nel gioco competitivo, i quali hanno diritto a essere soccorsi in quanto individui, ma non a vedere protette le mansioni che svolgono, al prezzo a cui le svolgono e nel modo in cui lo fanno. I frugali, insomma, riescono a sostenere uno stato che intermedia all'incirca la metà del pil perché hanno creato un sistema capace di accogliere imprese ad alto valore aggiunto, che creano ricchezza e ne condividono una quota con le comunità che le ospitano. L'Italia fa esattamente l'opposto: compie scelte normative, regolatorie e fiscali inclusa una certa tolleranza verso l'evasione tese a trattenere attività a basso valore aggiunto (la produzione di motori per lavatrici!) e, così facendo, allontana le imprese più sofisticate, avanzate e competitive.

L'opportunità unica e irripetibile di Next Generation Eu sta nella possibilità di usare i fondi per rendere socialmente accettabili le trasformazioni strutturali. Il grande rischio sta nello sforzo di reprimere ogni mutazione, ogni forma di innovazione e cambiamento nel nome del fatto che "si è sempre fatto così". Dietro queste cinque parole, apparentemente innocue o addirittura ragionevoli, c'è la presunzione che il governo conosca il futuro e possa dettarlo, lasciando agli operatori economici il compito di scrivere alterando al massimo la calligrafia del sovrano, ma non il contenuto delle sue parole. E così ogni forzatura dall'uso perverso della cassa integrazione al divieto di licenziamento, dalle norme anti-concorrenziali alle nazionalizzazioni appare giustificata alla luce dell'obiettivo finale.

È come se il paese, avendo bisogno di un agronomo, si fosse rivolto a un esperto di esplosivi. Pochi lo hanno spiegato con l'efficacia di Friedrich Hayek nella sua lezione per il Nobel: "Se l'uomo non vuole fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l'ordine sociale, dovrà rendersi conto che (…) non può acquisire la piena conoscenza che renderebbe possibile il dominio sugli eventi. Egli quindi dovrà usare quel po' di conoscenza di cui riesce a disporre, non per plasmare i risultati come fa un artigiano col proprio lavoro, ma piuttosto per coltivare la crescita fornendole l'ambiente adeguato, nello stesso modo in cui un giardiniere si prende cura delle sue piante".

Da Il Foglio, 10 agosto 2020
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Re: Diario economico

Messaggioda zampaflex » 13 ago 2020 08:37

Applausi.
Anche per lo sminamento di diffuse credenze.
Non per fare il gradasso, ma sono cose che dico da anni: stato più efficace ed efficiente, lotta dura all'evasione, sono armi per liberare gli animali spirits imprenditoriali assopiti da decenni di mercato captive e castrati dal desiderio di essere i padroni del vapore.
E pressione fiscale e spesa pubblica misere scuse per chi in realtà vuole solo fottere il prossimo.
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Re: Diario economico

Messaggioda harmattan » 13 ago 2020 15:58

tenente Drogo ha scritto:

Per dirlo in modo molto semplice, i "frugali" reggono uno stato pesante perché hanno la mano leggera sul fronte della regolamentazione...............


INDEX ECONOMIC FREEDOM 2020. Ma noi dove siamo???

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Re: Diario economico

Messaggioda zampaflex » 14 ago 2020 07:47

Henry Ford’s principle: “Pay your employees a decent wage so that they become your customers.”

Cosa che i famelici managers turbocapitalistici dell'era postreaganiana hanno completamente dimenticato con la scusa della competizione.
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Re: Diario economico

Messaggioda tenente Drogo » 17 ago 2020 00:04

"Ma al Pd interessa o no rappresentare i ceti produttivi?"

Giorgio Gori
12 Agosto, 2020

Avviso ai naviganti: chi scrive non ha nessuna intenzione di partecipare al nuovo derby Nord vs Sud. Evitate quindi iscrivermi a quella partita. Considero l’arretratezza di gran parte dei territori meridionali un problema per tutto il paese e sono tra quelli che chiedono di usare una parte rilevante del Recovery Fund per colmare il gap infrastrutturale che li caratterizza.



Il problema che ho posto – prima su Twitter, poi con un’intervista a Repubblica - è politico. Riguarda la rappresentanza del Nord. Ossia – come ho scritto – la rappresentanza della parte più moderna ed europea del nostro Paese (nessuno si offenda, per favore, è una considerazione oggettiva), in cui si concentrano la produzione del Pil e il contributo alle esportazioni. Non a caso sono partito da Salvini e dalla sua svolta nazionalista, dalla cancellazione della parola “Nord” dalla simbologia della Lega. Attenzione, ho detto: si apre uno spazio, ci interessa provare ad occuparlo?



Che il tema esista lo si capisce da molti segnali. L’ultimo l’ha lanciato ieri Giordano Riello, ex presidente dei giovani di Confindustria Veneto: “Nessuna forza politica ha in cima all’agenda i temi che interessano il mondo produttivo delle regioni più industrializzate”, ha detto a La Stampa. “A livello locale, qui in Veneto, abbiamo un buon rapporto con il presidente Zaia (…). Ma i partiti a Roma sono tutti lontanissimi da noi”.



Ecco. Quello che pensa Riello lo pensano la gran parte degli imprenditori, degli operai, degli artigiani, dei commercianti, delle partite iva, degli autonomi e dei professionisti che vivono e lavorano nel nostro paese, a partire da quelli del nord. Oltre a Zaia fa eccezione Bonaccini, fanno eccezione alcuni sindaci. Ma la politica nazionale – e il Pd, che è quello che m’interessa – sembrano guardare da un’altra parte.



Il punto è la centralità – o non centralità – del lavoro, dell’impresa e della crescita. Salvini che passa il suo tempo a demonizzare l’immigrazione – quando le fabbriche del Nord senza stranieri chiuderebbero domattina – e che persegue il sovranismo antieuropeo, non rappresenta questi lavoratori e questi territori, anzi li danneggia. Di Maio che chiama gli imprenditori “prenditori”, meno che meno. Così come chiunque immagini di tenere in piedi il paese a forza di sussidi, senza preoccuparsi di riaccenderne il motore.



L’Italia non cresce da vent’anni, ha una produttività mediamente molto lontana da quelle dei maggiori paesi europei, attrae pochi investimenti dall’estero, innova troppo poco, tende a scivolare verso i segmenti più bassi delle catene del valore e schiacciare qualità del lavoro e salari.



Il Pd vuole farsi carico di questi problemi – e dare quindi rappresentanza all’”Italia che lavora e che produce” – o no? Vuole mettere l’aumento della produttività e la crescita dei salari in testa alla propria agenda o pensa – come i suoi alleati 5Stelle – che si possa fare sostanzialmente a meno delle imprese, che a tutto ci pensa lo stato?



Si tratta di fare delle scelte. Se ci attestiamo sulla difesa degli interessi dei pensionati e dei dipendenti pubblici – con tutto il rispetto – difficilmente rappresenteremo quelli dei giovani e delle componenti più dinamiche (e meno garantite) della società. Se anziché preoccuparci di dare alle imprese gli strumenti per crescere e creare nuovi (buoni) posti di lavoro consentiamo che si faccia strada l’idea di smantellare una delle cose migliori fatte dai governi a guida Pd – quel Jobs act che ha permesso in pochi anni l’assunzione di un milione di lavoratori a tempo indeterminato - reintroducendo l’art.18 e anzi estendendolo alle imprese con meno di 15 dipendenti, come vorrebbe Landini, facciamo l’opposto dell’interesse non solo degli imprenditori, ma dei lavoratori, e di nuovo, soprattutto dei giovani. E ci giochiamo definitivamente il nord.



In tutto questo, si noti, non ho speso una parola contro i recenti provvedimenti del governo a favore del sud. La decontribuzione del 30 per cento voluta dal ministro Provenzano è una scelta forte, che mi permetterei di criticare solo se si fermasse ai 3 mesi del 2020 (la prosecuzione dipende dall’Europa e dalla capienza del bilancio dei prossimi anni) o se restasse l’unico pilastro di una politica di attrazione degli investimenti al sud, peraltro sacrosanta. Ma rappresenta una scommessa sulla reattività delle forze di mercato, e non può quindi che vedermi d’accordo.



Il passo in più, che dovrebbe però riguardare tutto il paese e che sarebbe letto quindi anche come parte di una risposta alle istanze del nord, dovrebbe essere il riconoscimento che costo del lavoro, produttività e costo della vita non possono essere considerate variabili tra loro indipendenti. Il provvedimento voluto da Provenzano contiene l’implicito riconoscimento che al Sud queste dimensioni sono marcatamente disallineate – e per bilanciarle si taglia la parte contributiva del costo del lavoro; ma lo sono anche al nord, spesso a danno dei lavoratori, a causa di contratti nazionali che non tengono conto dell’effettivo contributo di produttività e del costo della vita nei diversi territori.



La risposta non può che essere il passaggio da un modello di contrattazione centrato sulla scala nazionale a uno che privilegi la dimensione territoriale e aziendale, legato a chiari obiettivi di produttività, con la possibilità che il contratto di secondo livello deroghi a quello nazionale di settore. Ne ha scritto qualche giorno fa Pietro Garibaldi su Repubblica, ricordando che secondo uno studio di Boeri, Ichino, Moretti e Posh questo schema consentirebbe una crescita dell’11 per cento dell’occupazione nazionale e dell’8 per cento dei salari. Il governo dovrebbe favorire il processo con riduzioni fiscali e accompagnarlo con l’introduzione di un salario minimo nazionale.



A proposito di decontribuzione: Provenzano ha convinto il governo a concentrare tutti gli sforzi sul sud. Io mi permetto di dire che non può bastare. Non perché pensi che agli sgravi per il sud debbano seguire quelli per il nord. Il punto è diverso: il mercato del lavoro evidenzia una bassa partecipazione delle donne e dei giovani. Le conseguenze sono drammatiche quanto note: forte disoccupazione giovanile, disuguaglianza di genere, crollo della natalità. La prima a risentirne è però la produttività, tanto che il Governatore Visco a più riprese ha indicato proprio l’aumento del tasso di occupazione giovanile e soprattutto femminile come una delle principali leve per sostenerne la crescita. Questo risultato si può ottenere attraverso un significativo (e strutturale) taglio del cuneo contributivo per le assunzioni di giovani e donne, in questo caso esteso a tutto il territorio nazionale.



Tre altre cose credo debbano essere fatte con urgenza, se si pensa che l’Italia debba ripartire dalle sue imprese. La prima: detassare gli utili reinvestiti nelle imprese. Il motore si riaccende infatti con gli investimenti pubblici e con quelli privati: questi ultimi vanno vigorosamente incentivati. La logica di Industria 4.0 va ripresa e allargata, senza venir meno al criterio di neutralità che determinò il successo di quella misura.



La seconda: investire nella formazione permanente dei lavoratori. Il rinnovamento tecnologico delle catene produttive produce risultati solo se accompagnato da un’evoluzione delle competenze e da un rafforzamento del capitale umano. Ed è evidente che su questo fronte si sta facendo troppo poco. Il diritto soggettivo alla formazione è nel contratto dei metalmeccanici ma si traduce nella maggior parte dei casi in pratiche sciatte, condizionate dalla scarsa qualificazione dei formatori. Bentivogli e Fuggetta hanno proposto un’infrastruttura nazionale privato/pubblica per avere un Fraunhofer in Italia. Serve al nord come al Sud, la mettiamo in piedi?

La terza: incentivare in ogni modo i processi di aggregazione tra imprese. La produttività italiana ristagna anche a causa dell’estrema frammentazione del tessuto produttivo: le imprese medio-grandi hanno una produttività mediamente molto superiore a quelle delle piccole imprese, e così accade per il livello dei salari. Non è affatto vero che piccolo è bello. Le micro aziende famigliari innovano poco e non sviluppano una domande di personale qualificato, assumono pochi laureati. Intervenire quindi sulla taglia delle aziende con incentivi fiscali che favoriscano l’aggregazione è quindi fondamentale.



Ci si intesta poi la rappresentanza dei ceti produttivi – e quindi innanzitutto del nord, ma evidentemente non solo del nord – se sulla semplificazione e sulla sburocratizzazione della pubblica amministrazione si fa sul serio, se si introduce un criterio di valutazione del merito tra i dipendenti pubblici, se si investe sulla qualità dell’istruzione scegliendo di dare una carriera agli insegnanti, anziché distribuire (scarsi) aumenti a pioggia, se si sfidano gli interessi corporativi che frenano l’efficienza del sistema giudiziario; se si sbloccano gli investimenti infrastrutturali trattenuti da vincoli e ritardi, se si accelera sulla digitalizzazione del paese. Tutto ciò che concorre a definire una cornice più favorevole al funzionamento delle imprese e all’attrazione degli investimenti incontra gli interessi di chi vive di mercato, quindi del ceti produttivi, quindi innanzitutto del Nord, ma certamente non solo del nord.



La premessa per fare ognuna di queste cose è credere nelle imprese, smettere di guardarle con diffidenza, smettere di contrapporne gli interessi a quelli dei lavoratori (e dei disoccupati), smettere di pensare che chi chiede attenzione per i ceti produttivi sia di destra, servo dei padroni e nipotino della Thatcher. A riguardo vale una citazione di Emmanuel Macron: “Una politica per le imprese non è una politica per i ricchi! E' una politica per l'intera nazione, una politica per l'occupazione. (…) La creazione di ricchezza, la prosperità di una nazione, è il fondamento di qualsiasi progetto per la giustizia e l'equità. Se vogliamo dividere la torta, la prima condizione è che ci sia una torta... E sono le imprese, che fanno questa torta, e nessun altro. E' una bugia dire che si difendono i lavoratori se non si difendono le imprese”.
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Re: Diario economico

Messaggioda harmattan » 17 ago 2020 10:20

tenente Drogo ha scritto:
L’Italia non cresce da vent’anni, ha una produttività mediamente molto lontana da quelle dei maggiori paesi europei, attrae pochi investimenti dall’estero, innova troppo poco, tende a scivolare verso i segmenti più bassi delle catene del valore e schiacciare qualità del lavoro e salari.

Il Pd vuole farsi carico di questi problemi



Ammiro la buona volontà, un pò meno il timing.
Il PD, come l'intera classe politica (escludendo piccole realtà come "Fare per fermare il declino"), sono il baluardo della burocrazia, del nepotismo, delle consorterie e solo oggi che il paese è con tutte e due i piedi nella fossa si ricordano della crescita.

Vabbè, è agosto e fa caldo.
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Re: Diario economico

Messaggioda zampaflex » 17 ago 2020 18:20

"La terza: incentivare in ogni modo i processi di aggregazione tra imprese. La produttività italiana ristagna anche a causa dell’estrema frammentazione del tessuto produttivo: le imprese medio-grandi hanno una produttività mediamente molto superiore a quelle delle piccole imprese, e così accade per il livello dei salari. Non è affatto vero che piccolo è bello. Le micro aziende famigliari innovano poco e non sviluppano una domande di personale qualificato, assumono pochi laureati. Intervenire quindi sulla taglia delle aziende con incentivi fiscali che favoriscano l’aggregazione è quindi fondamentale."

Lo dico da anni. Posso fare il sindaco anche io?
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Re: Diario economico

Messaggioda zampaflex » 21 ago 2020 07:33

Quanto trattengono i giganti del web (espressione banalmente infelice ma efficace) dalle vendite di giochi, app e libri?

https://www.dday.it/redazione/36336/da-apple-a-google-da-amazon-a-uber-commissioni-percentuali-e-restrizioni-i-numeri-segreti-degli-store-digitali%20
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Re: Diario economico

Messaggioda maxer » 21 ago 2020 08:31

zampaflex ha scritto:Quanto trattengono i giganti del web (espressione banalmente infelice ma efficace) dalle vendite di giochi, app e libri?

https://www.dday.it/redazione/36336/da-apple-a-google-da-amazon-a-uber-commissioni-percentuali-e-restrizioni-i-numeri-segreti-degli-store-digitali%20

.....

# e IO pago :evil:
# e TU paghi :evil:
# e EGLI paga :evil:
# e NOI paghiamo :evil:
# e VOI pagate :evil:
# e ESSI pagano :evil:

# e LORO pagano tasse ridicole* :evil: :evil: :evil:

( # e ci fanno anche credere di stare facendo gli "affari della vita" ! )

.....

*quando le pagano ...
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Re: Diario economico

Messaggioda bobbisolo » 21 ago 2020 11:45

zampaflex ha scritto:Quanto trattengono i giganti del web (espressione banalmente infelice ma efficace) dalle vendite di giochi, app e libri?

https://www.dday.it/redazione/36336/da-apple-a-google-da-amazon-a-uber-commissioni-percentuali-e-restrizioni-i-numeri-segreti-degli-store-digitali%20


sembra proprio un oligopolio... 30% fisso quasi per tutti
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Re: Diario economico

Messaggioda tenente Drogo » 24 ago 2020 13:13

Christian Di Marco è un esponente del Fronte Sovranista Italiano


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Re: Diario economico

Messaggioda Tex Willer » 24 ago 2020 13:18

tenente Drogo ha scritto:Christian Di Marco è un esponente del Fronte Sovranista Italiano


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Piantarla di scrivere su varechina ed acido muriatico che sono mortali se ingeriti!!!
Tempo due/tre anni idioti di questo tipo non potrebbero piu'scrivere
Se qualcosa è gratis, il prodotto sei tu
"E’ più facile imbrogliare la gente che convincere la gente che è stata imbrogliata” Mark Twain

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